I negozi di Adriano Olivetti. Coerenza di stile e immagine non-coordinata

Stefano Zagnoni

Nell’ambito della vastissima storiografia olivettiana gli spazi per la promozione e la vendita sono stati meno esplorati di altri settori, pure interrelati, quali la grafica, il design di prodotto o l’architettura ‘d’esterno’. Più precisamente, l’attenzione è stata principalmente rivolta ad un numero limitato di prestigiosi ‘pezzi unici’ affidati ad affermati architetti ed artisti esterni all’azienda. Si tratta di episodi di indubbia rilevanza, ma che rappresentano una quota percentualmente minima rispetto alle centinaia di negozi che dalla metà degli anni 1930 iniziano ad affiancarsi ad una rete commerciale che, sebbene con diversa densità, arriva entro il successivo quarto di secolo a coprire larga parte del pianeta. L’ambizione della ricerca in atto[1] è pertanto quella di ricostruire, senza pretendere ad una impossibile esaustività, una visione d’insieme di una vicenda che – nelle pieghe dei distinti periodi, delle sovrapposizioni di orientamenti e del breve ciclo di vita di un patrimonio che solo in casi più unici che rari resta tangibile – presenta aspetti pressoché inesplorati. Il sondaggio qui proposto si limita al periodo ‘aureo’ in cui Adriano Olivetti è alla guida dell’azienda e, pur non prescindendo dal ruolo che gli esempi più noti hanno svolto, li assume come in larga misura acquisiti all’indagine storica per gettare uno sguardo sul molto altro di cui sono parte.

 

È noto che la strategia di impresa che Adriano viene affinando prevede la redistribuzione di gran parte degli ampi margini di profitto che la Olivetti riesce a conseguire e aspira, come lui stesso scriveva nel tratteggiarne il «codice morale», ad una «partecipazione operosa e consapevole di tutti ai fini dell’azienda»[2]. Allo stesso tempo, «la Olivetti di Adriano era – come afferma Luciano Gallino – un caso magistrale di impresa orientata al mercato […]. Fu lui a sviluppare una politica di marketing, come si direbbe oggi, estremamente combattiva» e alla quale corrisponde la «straordinaria aggressività ed efficacia dell’organizzazione commerciale»[3].

È Adriano Olivetti ad istituire nel 1928 un Ufficio pubblicità che, con i diversi assetti organizzativi e denominazioni assunti nel corso degli anni, svolge un ruolo fondamentale nella definizione e nel coordinamento dell’immagine aziendale nei diversi settori, ivi compreso quello dei negozi.

Si tratta di un complessivo ed innovativo progetto di comunicazione che lascia ampi spazi di libertà all’iniziativa e alla creatività individuali, ma che, altra specificità del ‘caso’ Olivetti di quegli anni, è sottoposto allo sguardo attento di Adriano e, riprendendo i termini usati da Geno Pampaloni, al suo ‘dirigismo estetico’[4].

Negli anni tra il 1931 al 1934 in cui egli risiede a Milano stabilisce rapporti di stima e fiducia tanto con il gruppo raccolto attorno alla rivista Casabella e a Giuseppe Pagano, al quale si rivolge in via preferenziale per suggerimenti circa la scelta dei collaboratori[5], quanto con esponenti di quello per alcuni anni riunito attorno alla rivista Quadrante. Il razionalismo di scuola milanese è così assunto a referente pressoché unico, quanto meno, fino al dopoguerra.

A proposito della sua visione di ‘impresa responsabile’ si è parlato di «taylorismo dal volto umano»[6] o di «fordismo dolce»[7]. Resta comunque il fatto che la fabbrica fordista e lo scientific management di Taylor sono i modelli su cui imposta la riorganizzazione dell’azienda. Trova quindi anche da questo punto di vista motivazione l’affinità con la tendenza che assume tali modelli come paradigmi della ‘civiltà della macchina’, e, per quanto la specificità del razionalismo italiano richiederebbe più puntuali argomentazioni, se ne fa interprete nell’ottica di un rinnovamento culturale e sociale proiettato in un orizzonte europeo. Analogamente, l’esperienza del Bauhaus, con l’idea di bellezza di tutti e per tutti da esso perseguita attraverso una sintesi delle arti, si offre quale ideale riferimento sia estetico che etico.

La scelta di campo è già evidente nel catalogo edito nel 1933 in occasione dei venticinque anni dell’azienda. Alle illustrazioni riferite agli spazi produttivi, l’ordine della fabbrica, la grafica radicalmente innovativa di Munari e Ricas pospone quelle di un ufficio e di un allestimento espositivo in perfetto ‘stile Bauhaus’ ed in sovrimpressione a quest’ultimo scorre un testo che prefigura l’orientamento di lì a poco seguito: «L’identico spirito che anima l’organizzazione di fabbrica si rivela nella graduale realizzazione di forme estetiche di gusto lineare e modernissimo nell’ordinamento delle sale di esposizione ed in tutte le manifestazioni rappresentative della Olivetti […]»[8].

Sta di fatto che al 1933 l’unico negozio Olivetti è quello aperto nel 1914 nella Galleria Vittorio Emanuele di Milano e che, più volte riconfigurato e con allestimenti frequentemente rinnovati, funge nei decenni successivi da importante punto di diffusione delle proposte sia promozionali che culturali della Olivetti.

L’apertura di esercizi commerciali monomarca prende tuttavia avvio di lì a poco, in primo luogo in Italia, ma anche all’estero, nonché in quelli che all’epoca erano colonie e possedimenti italiani. L’operazione è in larga misura da intendersi come integrativa e di supporto rispetto al ruolo già svolto da filiali e concessionarie. Come da più parti ribadito, lo scopo per cui sono concepiti non è infatti tanto o soltanto la vendita, affidata piuttosto al duro lavoro dei venditori[9], quanto comunicare il progetto di impresa in una linea di pensiero – che era già stata di Walter Rathenau – volta a riconciliare produzione massificata di merci e bellezza. Se ipotizziamo per un attimo di ignorare la spinta ideale che marca la differenza e facciamo nostre le attuali strategie di marketing, potremmo non di meno vedervi anche un modo per dare visibilità all’identità di marca ammantandola di valori indipendenti da quelli d’uso e di scambio dei prodotti; la localizzazione nei punti più centrali e di maggior prestigio, così come un carattere distintivo che si colloca nell’attualità cercando di anticiparla non farebbero che confermare la nostra impressione.

Il primo monomarca della nuova ‘era’ è aperto a Torino nel 1935 ed è ideato da Xanti Schawinsky, temporaneamente riparato in Italia dopo il lungo apprendistato al Bauhaus. Nel presentarlo su Domus, Edoardo Persico non manca di osservare come esso proponga «gli elementi più raffinati e significativi del razionalismo europeo»[10], mentre la tavola che propone una sinossi degli elementi caratterizzanti del progetto pubblicata dalla rivista esprime immediatamente la novità di un approccio al tema che – come ha notato Dario Scodeller – affronta «il progetto, non come problema di architettura o arredamento, bensì come problema di visual design»[11].

La completa riconfigurazione attuata nel primo dopoguerra rientra verosimilmente nel periodico processo di rinnovo cui i punti vendita sono ‘fisiologicamente’ sottoposti, ma è ugualmente indicativa della diversa strategia comunicativa per la quale si è nel frattempo optato. Del progetto di Schawinsky resta solo il fronte su strada con i vetri ricurvi che creano un invito per l’asimmetrico ingresso arretrato, mentre lo spazio interno è completamente svuotato delle sofisticate soluzioni che Persico riassume con il termine ‘realtà magica’ e che danno luogo ad una articolata organizzazione spaziale giocata su trasparenze e schermi translucidi, tra gesto creativo e composizione modulare: le vetrine definite dall’arretramento dell’ingresso e con i ripiani posti all’altezza dello zoccolo metallico, l’individuazione di un vestibolo autonomo, le teche vetrate incorniciate da montanti metallici per contenere i prodotti ecc.

Il negozio aperto a Napoli, congiuntamente alla trasformazione dell’intero edificio storico che lo ospita a sede locale dell’azienda nel 1937-38, propone una soluzione profondamente diversa[12]. L’unicità del progetto di Piero Bottoni e Mario Pucci (con interventi di Marcello Nizzoli) è con forza sottolineata da più episodi, primo fra tutti dalla scultura di Jenny Wiegmann Mucchi sul fronte strada, una figura angelica sospesa nell’aria che scende a afferrare una macchina per scrivere. Nonostante ciò, si possono già evincere alcuni caratteri che ritornano pressoché invariabilmente nei decenni successivi e almeno fino alla svolta che si registra nella seconda metà degli anni 1960.

Tra tali caratteri, la visibilità dello spazio interno, qui risolta con una vetrata continua ottenuta attraverso consistenti interventi strutturali, è quello di più immeditato impatto. Tutto l’ambiente aperto al pubblico diventa vetrina, mentre tende a scomparire la vetrina intesa come elemento a se stante, mostra che allude a quanto proposto in un interno più o meno celato. In suo luogo prende piede una molteplicità di soluzioni per esibire prodotti o immagini promozionali in modo non occludente e che è, o appaia, in qualche modo estemporaneo: piedistalli e trespoli di varie forme e materiali, sistemi espositivi ideati dai grafici dell’ufficio pubblicità o, ancora, semplici tavoli dattilo della produzione di serie Olivetti Synthesis.

Anche in presenza di un sedime irregolare quale quello di Napoli, l’impianto planimetrico è quasi sempre ricondotto ad uno schema ortogonale, e, come nota ancora Dario Scodeller,  «l’architettura non è più foderata, rivestita, arredata, ma un puro vuoto che accoglie il prodotto, spazio della sua rappresentazione iconica»[13].

In linea di massima, i prodotti non sono più chiusi in contenitori, bensì collocati su tavoli, mensole o scaffali direttamente accessibili. In apparente controtendenza, a Napoli una lunga infilata di macchine per scrivere Studio 42, per di più raddoppiata da una parete a specchio, è ‘rinchiusa’ all’interno di un piano inclinato posto sotto il piano in cristallo di quello che i progettisti definiscono ‘banco vetrina’. Una tale disposizione non è in tutta evidenza adeguata ai fini della presentazione del prodotto, ma, attraverso la sua iterazione, ne evoca piuttosto la natura di oggetto di serie. Travalicando la mera rispondenza al dettato funzionale, il banco di vendita si propone in questo modo alla vista come installazione che stabilisce un confronto dialettico con la scultura di Jenny Wiegmann Mucchi.

La presenza di opere d’arte, altro tratto distintivo e all’epoca innovativo dei negozi Olivetti, è stata da più parti associata alla volontà di riconciliare il mondo della tecnica e della produzione industriale con quello dello spirito e ciò anche sulla scorta della consapevolezza maturata da Adriano durante l’apprendistato in fabbrica che «l’uomo e la macchina erano due domini ostili l’uno all’altro, che occorreva conciliare»[14]. L’installazione di Napoli parrebbe spingersi oltre trattando un oggetto di produzione seriale alla stregua di un’opera d’arte. E sostenere – come fa, ancora una volta, Giuseppe Pagano[15]  – che un oggetto di design, ovvero una ‘identità replicabile’, possa essere elevato alla categoria dell’arte è un’affermazione che ha del rivoluzionario nel contesto dell’Italia di quegli anni.

 

L’indirizzo che si viene, più in generale, precisando è assunto dal bollettino interno aziendale a criterio cui attenersi: «[…] è evidente come la disposizione geometrica […] riesca a creare un assieme esteticamente buono nella presentazione e nell’ambientazione. Volendo aggiornare il negozio non bisogna dimenticare che l’effetto sicuro e la distinzione si ottengono con: l’uniformità dei motivi, la minima varietà dei colori, l’illuminazione semplice ed efficace»[16]. Prendendo a riferimento il piccolo negozio di Chieti, si fa notare «che tutto lo spazio dietro la vetrina di ingresso è lasciato libero, il che permette di allestire mostre di qualsiasi genere senza togliere la visuale di tutto il negozio. Questa è una norma adottata in tutti i rifacimenti dei nostri negozi […]»[17]. Infatti, «è secondo lo spirito della società questo sforzo di trasformare e rigenerare l’ambiente del negozio […]. Di renderlo accogliente lasciando l’iniziativa al compratore mettendo tutto in bella vista e pure di nobilitare un prodotto di merito, capolavoro dell’alta meccanica, circondandolo dell’atmosfera particolare ad una mostra d’arte»[18].

Su segnalazione del gruppo di Casabella[19], nel 1937 è nel frattempo entrato in azienda Gian Antonio Bernasconi, che dà un contributo determinante a quella che nei successivi vent’anni è l’immagine maggiormente consolidata, sia pure non esclusiva, del negozio Olivetti. Fresco della laurea al Politecnico di Milano, inizia a progettare i primi, da solo o con collaborazioni che si trovano spesso citate quali unico apporto autoriale (Venezia – Bacino Orseolo con Marcello Nizzoli, Milano – Galleria Vittorio Emanuele con Giovanni Pintori), lavorando al contempo ad un sistema da lui chiamato ad ‘elementi normalizzati’. Non si tratta della predisposizione di un progetto tipo, quanto della messa a punto di alcuni ‘sintagmi’ che possono di volta in volta essere adattati alla situazione contingente dando forma ad un’espressione ad un tempo immediatamente riconoscibile e non meramente ripetitiva.

Tra questi ‘elementi’, i ripiani ribaltabili in legno e linoleum per l’esposizione dei prodotti sono il dettaglio più inconsueto e che, spesso rappresentati e fotografati chiusi, appaiono come quadri muti allineati lungo la parete.  Semplici mensole o un tipo di scaffale pensile su due livelli e di forma allungata sono altri supporti espositivi largamente adottati. Il rivestimento di parete con pannelli di faesite verniciati di bianco e montati con un’apparecchiatura isodoma è probabilmente la soluzione cui si fa più frequentemente ricorso; qui il giovane Bernasconi ha forse tratto ispirazione dalla parete-cassettiera osservata a Napoli e lo stesso può ipotizzarsi per l’inserimento di porzioni di pareti a specchio, soluzione, come si è visto, là adottata per replicare il ‘banco vetrina’. Il banco di vendita – presenza altrimenti focale e sovente motivo di lenocini formali – tende per altro a scomparire, o a essere messo in secondo piano, mentre scrivanie o tavoli fissi contribuiscono alla percezione di un luogo in cui il motivo principale dell’interlocuzione tra addetto e visitatore non è l’acquisto di merci. Senza dilungarsi oltre sugli aspetti tipologici, le sedi principali ospitano del resto, in tutto o in parte, anche funzioni che direttamente commerciali non sono: sale di prova delle macchine e per corsi di dattilografia, uffici, laboratori di riparazione e magazzini di deposito.

Dopo alcune applicazioni risalenti al 1939-40 (finora documentate a Monza, Tripoli, Vicenza), gli ‘elementi normalizzati’ sono utilizzati nel negozio di Bologna (1940-42), puntualmente segnalato da Domus[20], che si qualifica per i ricercati caratteri di eleganza e distinzione sottolineati dall’altorilievo anteposto al setto murario che separa le due vetrate su strada  e dall’affresco che campeggia su una parete prospicente la zona di ingresso (fig. 1).

La messa a punto di un tale sistema non preclude in ogni caso altre sperimentazioni. Tra queste, si segnalano quelle condotte da Ugo Sissa durante la sua permanenza in Olivetti dal 1941 al 1945. Il progetto più conosciuto e apprezzato è quello di Roma[21], dove peraltro è Adriano Olivetti che, cogliendo con indubbia sensibilità il clima di euforia dell’immediato dopoguerra, impone la collocazione della pittura murale “Boogiewoogie” di Renato Guttuso  in luogo della figurazione astratta inizialmente ipotizzata. Con non minore impegno e originalità Sissa progetta comunque anche i negozi di Asti, Frosinone, Pistoia e Modena, quest’ultimo non realizzato.

Esempi che si distaccano dalla chiarezza e semplicità ulteriormente accentuate dalla pur poliedrica vena creativa di Sissa possono essere rinvenuti oltre oceano, nei negozi aperti nel 1940 dalla Olivetti Argentina a Buenos Aires e dalla Olivetti do Brasil a Curitiba. In entrambi permane l’intenzione di proporre un’immagine di assoluta modernità, ma si differenziano tanto nella configurazione quanto nell’aggettivazione. Il progetto di non meglio precisati «noti architetti di Buenos Aires»[22] nella centralissima calle Florida della capitale argentina attrae l’attenzione attraverso una grande teca sovrastata dal logotipo aziendale (fig. 2). La teca, che avvolge un pilastro cilindrico ad una estremità e poggia su di una sfera all’altra, è collocata in un ampio vestibolo e con altre vetrine ai lati, ma introduce ad un interno completamente schermato da una parete in vetrocemento ed in cui spicca un bancone di vendita plasticamente sagomato.

 

Nel periodo immediatamente successivo la Seconda guerra mondiale l’attività, che non ha di fatto subito interruzioni nemmeno durante il conflitto, ha una forte impennata con il ripristino, la trasformazione e la nuova apertura di negozi; il tutto – annuncia il bollettino interno – «in armonia di stile e di gusto» [23].

Il sistema ad ‘elementi normalizzati’ è largamente utilizzato e, sia pure rivisitato e modificato, continua ad esserlo fino verso la fine degli anni 1950.

Per quanto non equiparabile ad una produzione standardizzata e seriale, esso consente una notevole riduzione dei tempi di progettazione e realizzazione. Vi si fa così ricorso non solo in molti interventi minori, bensì anche per sedi di primaria importanza.

In un opuscolo di presentazione dell’attività del proprio studio professionale, Gian Antonio Bernasconi si attribuisce a posteriori la «progettazione e realizzazione di circa 300 negozi […] con particolare riguardo allo studio della normalizzazione degli elementi, per la Società Olivetti» tra il 1937 e il 1957[24]. La cifra è con ogni probabilità sovrastimata dal momento che una fonte più vicina all’azienda indica che al 1958 ce ne sono in Italia 235 [25], ma alla luce dei riscontri fin qui effettuati, l’elenco, riportato in altra parte del fascicolo, di ben centodieci località in Italia e diciotto all’estero nelle quali avrebbe seguito la realizzazione di negozi potrebbe risultare attendibile.

Una tavola del 1951 che illustra un’ipotesi di sistemazione del negozio di Istanbul può essere assunta ad esempio di un progetto tra i tanti e delle modalità con cui è presentato: una pianta ed una vista prospettica raffigurano un unico spazio con una scala a giorno per il piano superiore sul fondo e suddiviso da un bancone fisso nelle due zone destinate rispettivamente ad esposizione e ad ufficio; ripiani ribaltabili, tavoli e rivestimento in pannelli di faesite corredano la essenziale sistemazione(fig. 3).

In molti casi non si fa ricorso ad interventi artistici esterni ed è lo stesso Ufficio architetti a ideare pannelli o pitture murali con composizioni vivacemente colorate.

Nel negozio di Firenze del 1953 uno di questi pannelli è collocato sul fondo del vano principale e funge da richiamo per la mensola sulla quale sono esposti i prodotti, nonché da contrappunto alla linearità dell’impianto planimetrico e alla consueta impronta ‘industriale’ delle finiture: chiusure in vetro temperato schermano gli uffici posti a lato e sono separate dalla parte superiore da una fascia in alluminio anodizzato che taglia orizzontalmente tutto il locale, divenendo cielino nella parte terminale che risvolta a L. Qui, mensola e pannello decorativo sono raddoppiati da una parete a specchio (figg. 4 e 5).

Un assetto spaziale in tutto simile lo ritroviamo due anni più tardi nelle tavole di progetto del negozio di Messina, dove a cambiare è essenzialmente la composizione astratta, per la quale sono ipotizzate più soluzioni. A Genova e a Manchester le pitture murali sono invece collocate sulla parete laterale di un vano pure qui allungato e che, attenendosi alle viste prospettiche nelle quali non sono rappresentati i prodotti, è difficilmente assimilabile ad uno spazio commerciale quanto, piuttosto, ad una galleria espositiva in cui si aggirano le figure inserite tramite fotomontaggi (figg. 6 e 7).

In alcuni casi gli esiti perseguono in modo più netto una connotazione individuale. A Lione ciò è forse anche dovuto ad una localizzazione che garantisce grande visibilità ma che, all’angolo non ortogonale e smussato di un isolato, presenta una situazione planimetrica difficilmente riconducibile ad un’organizzazione geometrica. Ne risulta una disposizione dei locali più libera e variata che ha un punto focale nell’atrio posto sull’angolo dell’isolato e in cui pitture murali e dettagli, quali i curiosi supporti conici a righe bianche e rosse, producono un effetto di sorpresa e un’apparenza di  casualità (fig.8).

Nell’importante rappresentanza di Vienna l’impianto ritorna ad essere geometrico, ma la soluzione dell’ingresso marca una ancor più netta, e fin anche ostentata, individualità. L’intervento, risalente al 1953 e al quale collabora Giovanni Pintori, è ubicato all’angolo di una galleria commerciale; per consentire l’accesso tanto dalla strada quanto dalla galleria è ricavato un ampio vestibolo sul quale ricompaiono vetrine espositive fisse e che, ribassato mediante una controsoffittatura traslucida, è sormontato da un parallelepipedo vetrato. Il tutto, controsoffitto, parallelepipedo e vetrine, è inondato di luce nelle ore notturne.

Se la concezione dello schema di base è di Bernasconi, una precisa attribuzione di ciascun intervento è problematica e forse nemmeno tanto significativa dal momento che è una sezione dell’ufficio tecnico aziendale, l’Ufficio architetti, a redigere i progetti, che consistono in buona misura nell’esplorazione di variazioni intorno ad uno stesso tema, e a predisporre i relativi elaborati secondo criteri di sostanziale uniformità. L’insistenza sullo stesso procedimento ideativo può, alla lunga, appannare il risultato: contrariamente alle prime realizzazioni, un ‘retrogusto’ di interno aziendale aleggia spesso e prende il sopravvento nei casi di più ‘ordinaria amministrazione’.

A tutt’oggi non si hanno molte informazioni su composizione e distribuzione dei compiti all’interno di questo Ufficio architetti. Annibale Fiocchi lo dirige dal 1947 al 1954, ma non risulta essersi occupato della progettazione di negozi per la Olivetti[26] . Oltre a Bernasconi, vi si è per contro intensamente dedicato Bernardino Coda. Entrato in Olivetti nel 1949 ancor prima della laurea in architettura al Politecnico di Torino due anni più tardi, vi resta per oltre vent’anni per poi, come spesso avveniva, proseguire la collaborazione in qualità di consulente[27]. Il suo cognome o una sigla, tra le altre che restano da decriptare, a lui riconducibile (CO.) compare nei cartigli di molti elaborati e la propensione per la pittura testimoniata dai famigliari[28] possono accreditarlo come autore di almeno alcune delle figurazioni artistiche. In una pubblicazione del 1961, Renato Bazzoni lo cita come co-progettista, assieme a Bernasconi, di sei dei sette negozi ideati dall’Ufficio architetti che presenta e come unico progettista di quello di Reggio Emilia del 1960[29], In quest’ultimo, una scansione ritmica di linee ortogonali che si intersecano a definire un’asimmetrica composizione di riquadri su tutte le superfici orizzontali e verticali segnalano una raggiunta autonomia e la fuoriuscita dalla fase contraddistinta dallo schema ad ‘elementi normalizzati’ di un fare che pure non prende le distanze da un razionalismo ‘ortodosso’.

 

In nessun momento l’ideazione è comunque prerogativa esclusiva di progettisti che operano alle dirette dipendenze dell’azienda, che può altrimenti decidere di affidarsi a professionisti locali. Le alleanze politiche che negli 1950 Adriano sta cercando di tessere non sono forse estranee alla scelta in questa direzione per la rappresentanza di Sassari, che, indipendentemente da ciò, si segnala per la qualità del risultato. L’incarico è affidato a Ubaldo Badas, figura di spicco in Sardegna ma, che, privo della laurea in architettura, si trova al pari di Carlo Scarpa a dover fronteggiare situazioni assai spiacevoli. Eugenio Tavolara, innovativo interprete della tradizione sarda, è poi chiamato a realizzare una grande altorilievo a pannelli in marmo e steatite che raffigura le tappe fondamentali della storia della scrittura ed occupa l’intera parete sinistra che, al pari di quella opposta, è separata dal controsoffitto ondulato da una fascia luminosa (fig.9).

L’alto numero di punti vendita progettati dall’Ufficio architetti e le consonanze che si possono riscontrare in altri commissionati all’esterno sostanzia in ogni modo in vari commentatori dell’epoca la convinzione che anche in questo settore esista uno ‘stile Olivetti’ che si esprime attraverso una produzione coerente e unitaria. È un’opinione che, riferita agli anni 1930-40, è supportata dalle stesse fonti aziendali e che continua a sostenere anche Renato Bazzoni, il quale, scrivendo agli inizi degli anni 1960, non può tuttavia fare a meno di osservare che nel trascorso decennio «la Olivetti ha incaricato architetti notissimi e assai personali di creare per lei opere impegnative»[30] , né ignorarne le opere nonostante la sua evidente predilezione per la ‘coerenza di stile’.

Quello che sfugge a Bazzoni, come a tanti altri, è che la dissoluzione dell’unitarietà del progetto moderno, dato e non concesso sia mai esistita, è un fatto ormai conclamato. Le scelte che portano Adriano Olivetti ad allargare la ricerca di una sintesi tra design, arte e architettura oltre l’ ‘estetica della macchina’ del primo razionalismo sembrano invece intuirlo.

Uno scambio di lettere con Bernasconi documenta altresì che ciò non è privo di conseguenze. L’architetto era stato nominato dirigente da Adriano nel 1952, ma all’epoca della corrispondenza, settembre 1959, la sua posizione è già mutata in quella di consulente esterno con l’aspettativa di una serie di incarichi, tra i più importanti dei quali vi era il palazzo della Hispano Olivetti di Barcellona. Adriano gli revoca l’incarico che, parrebbe, gli era stato conferito a sua insaputa, e la replica alle rimostranze dell’architetto è, al di là delle frasi di circostanza, quanto mai disarmante, lasciando al contempo trasparire il risvolto autocratico insito nel suo dirigismo estetico’: «ma Ella ha certamente da tempo compreso come l’indirizzo che io desidero dare all’architettura Olivetti differisca dalle Sue impostazioni»[31].

Gli showroom «compiutamente surreali» attraverso i quali, scrive Manfredo Tafuri, «agli architetti italiani che più d’altri avevano contribuito a rinnovare la museografia viene […] affidato il compito di caricare gli oggetti Olivetti di un’ ‘aura’ impalpabile»[32]  sono nel frattempo giunti ad ulteriore conferma di come il progetto di immagine aziendale sia all’epoca assolutamente all’avanguardia, ma, al tempo stesso, trovi un suo tratto distintivo nel non essere in toto riconducibile al concetto di corporate identity . Piuttosto, «affrontate come facce interrelate di una moderna forma di civiltà dell’immagine, la grafica come l’architettura, il design come l’urbanistica, la pubblicistica come la letteratura, il cinema industriale come gli allestimenti, i negozi come la tipografia costruiscono un sorprendente scenario allo stesso tempo disorganico e coerente»[33].

Più di quanto si verifichi per le altre opere di architettura, nell’interior design dei negozi il superamento del razionalismo anni Trenta non pregiudica il fatto che la maggior parte degli incarichi continuino ad essere affidati a coloro che ne erano stati protagonisti. Tra questi, c’è Giancarlo Palanti, emigrato in Brasile nel dopoguerra dopo aver fatto parte del gruppo vicino a Giuseppe Pagano: tra il 1957 e il 1966 il suo studio ha l’esclusiva per tutti i negozi, oltre venti, aperti dalla Olivetti do Brasil[34].

A prescindere da questo episodio che non ha finora avuto pressoché alcuna risonanza fuori dal Brasile, sarebbe evidentemente uno sforzo vano cercare tratti unificanti nella concezione dei noti showroom degli anni 1950. Sebbene con pochi mesi di anticipo rispetto a quello di New York, i primi fanno la loro comparsa a Chicago e a San Francisco sul finire del 1953[35]. Sono opera degli stessi progettisti, l’architetto Giorgio Cavaglieri e l’artista Leo Lioni, eppure sono tra loro totalmente dissimili. La porta in legno inserita nella vetrata di Chicago evoca un’idea di domesticità e l’allestimento è giocato sul motivo della piegatura, dal pannello artistico sul fronte strada agli elementi mobili e richiudibili a pacchetto che costituiscono sia i sostegni dei ripiani che i paraventi a riquadri colorati e che garantiscono la più grande flessibilità e variabilità dell’ambiente. Al contrario, a San Francisco l’alta vetrata a tutta luce frappone il solo logotipo al disvelamento di una spazialità assoluta, con in primo piano una scultura di epoca romana che si confronta con l’unico elemento comune alle due opere: i piedistalli su cui sono esposte le macchine e la cui posizione può essere variata attraverso una griglia di fori sul pavimento.

A fronte della fisicità e all’integrazione tra arte e architettura degli showroom dei BBPR (Belgiojoso – Peressutti – Rogers) a New York[36] e di Carlo Scarpa a Venezia[37], Franco Albini e Franca Helg propongono a Parigi un allestimento che si rifà alla leggerezza e alla flessibilità sperimentate nelle esposizioni temporanee ed appendono opere d’arte alle pareti[38].

La ‘disorganicità’ degli esiti stimola, non di meno, ad interrogarsi sui disegni dell’imprenditore, in che cosa essi incrocino quelli di architetti che hanno intrapreso personalissimi percorsi e in che relazione stiano questi elitari spazi di presentazione e rappresentazione con il suo coevo impegno a tutto campo per la diffusione della cultura ed il rinnovamento della società.

Ignazio Gardella, che nel 1960-61 firma lo showroom di Düsseldorf[39], sostiene : «Non credo più tanto al rapporto fra ragione funzionale e bellezza […] ma al rapporto bellezza-verità continuo a credere. E la verità non si raggiunge solo razionalmente […]. Mi sono allontanato dal razionalismo perché ho sempre creduto che nell’architettura ci fosse qualcosa di più […]»[40]. E se quello di Gradella è un approccio ‘eretico’ fin dagli anni 1930, anche il superamento dell’ortodossia razionalista attuato da Ernesto Nathan Rogers riconsidera l’identificazione del vero con il bello e riflette sul nesso tra eleganza e autenticità.

In questo senso, lo Showroom di New York, che ben esemplifica la fase della continua sperimentazione del gruppo BBPR caratterizzata dalla manipolazione della materia, e quello di Gardella sono due opere fra loro molto diverse, ma accomunate, come è stato scritto per l’opera dei BBPR, dall’«eleganza come autopresentazione di sé come forma autentica»[41]. (fig.10)

La bellezza è un concetto quanto mai sfuggente, ma i suoi contorni si vengono un po’ meglio precisando se associati a quello di autenticità. Ed insieme possono fungere da denominare comune per una figura altrimenti non riconducibile ad alcuno schema come Carlo Scarpa, per il quale la bellezza è un imperativo categorico e l’autenticità una componente essenziale per perseguirlo.

In questi stessi Cinquanta Adriano Olivetti mette dal canto suo in campo il massimo sforzo operativo affinché l’impresa diffonda «attorno a sé bellezza, valori estetici, armonia di forme»[42]. Nel far ciò l’abilità imprenditoriale, di cui l’immagine proposta anche attraverso questi prestigiosi showroom è parte, va di pari passo con il quasi messianico slancio dell’intellettuale e politico visionario, con una ‘coerenza di stile’ che, al pari del ‘dirigismo estetico’, non impone attributi precostituiti, bensì pondera, con ampiezza di vedute, la rispondenza al programma cui vuol dar forma. La stessa perentoria affermazione contenuta nella lettera a Bernasconi può, da questo punto di vista, essere riletta alla luce dell’idea di architettura come sostanza di cose sperate espressa da Edoardo Persico; e – chiosa Gardella – l’architettura così intesa «diventa espressione di civiltà»[43].

 

Abbreviazioni

AASO – Associazione Archivio Storico Olivetti, Ivrea

CSAC – Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università di Parma, Parma

 

[1] La ricerca ‘Olivetti – Spazi per la promozione e la vendita 1935/1985’ è condotta congiuntamente a Davide Turrini del Dipartimento di Architettura dell’Università di Ferrara ed è in corso da due anni.

[2] A. Olivetti, Appunti per la storia di una fabbrica, in R. Musatti, L. Bigiaretti, G. Soavi, a cura di, Olivetti 1908-1958, Tiefdruckanstalt Imago, Zurigo 1958, p. 16.

[3] Luciano Gallino in P. Ceri, a cura di, Luciano Gallino. L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, Einaudi, Torino 2014 (1° ed. 2001), p 15.

[4] Citato in V. Ochetto, Adriano Olivetti, Mondadori, Milano 1985, p. 98.

[5] Ibidem, p. 97.

[6] Luciano Gallino in P. Ceri, a cura di, Luciano Gallino. L’impresa responsabile …, cit., p. 44

[7] A. Bonomi, A. Magnaghi, M. Revelli, Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti tra non più e non ancora, Derive Approdi, Roma 2015, p. 16.

[8] Ufficio Pubblicità Olivetti, 25 anni Olivetti, Società grafica G. Modiano, Milano 1933, disegnato da Bruno Munari e Ricas (Riccardo Castagnedi), direzione artistica di Renato Zveteremich (AASO, biblioteca).

[9] Si veda al riguardo la dissacrante ricostruzione, vero e proprio controcanto, che Aldo Zargani fa della sua esperienza di venditore Olivetti in Certe promesse d’amore, Il Mulino, Bologna 1997, pp. 149-160.

[10] E. Persico, Un negozio a Torino, in «Domus», n. 92 – agosto 1935, pp. 47-48.

[11] D. Scodeller, Negozi, l’architetto nello spazio della merce, Electa, Milano 2007, p. 105.

[12] Cfr. in part. Red., Un negozio a Napoli, in «Casabella», n. 128 – agosto 1938, pp. 26-31; G. Consonni, Negozio e sistemazione della sede Olivetti in via Sanfelice a Napoli, 1937-38, in G. Consonni, L. Meneghetti, G. Tonon, a cura di, Piero Bottoni. Opera completa, Milano, 1990, pp. 271-273; G. Montuono, Milanesi a Napoli: il negozio Olivetti di Bottoni, Pucci e Nizzoli, in «’Ananke», n. 71 – gennaio 2014, pp. 62-65.

[13] D. Scodeller, Negozi…, cit. p.113.

[14] A. Olivetti, Appunti per la storia di una fabbrica…, cit., p. 9.

[15]  G. Pagano, Modelli d’arte per la produzione in serie, in «Costruzioni-Casabella», n. 154 – ottobre 1940, pp. 38-39.

[16] Red., Ambientazione, «BI- Bollettino Interno», s.d. (1939/40), p. 17 (AASO, biblioteca).

[17] Ibidem, p. 16.

[18] Ibidem, p. 20.

[19] Cfr. R. Astarita, Gli architetti di Olivetti: una storia di committenza industriale, Milano, F. Angeli, 2000, p. 169.

[20] M. Bega, Negozi, in «Domus», n. 170 – febbraio 1942, pp. 74-81.

[21] Cfr. in part. : L. Sinisgalli, Un nuovo negozio, in «BI- Bollettino Interno», s.d. (1946-47), p. 20-22 (AASO, biblioteca), ora in C. C. Fiorentino, Congegni sapienti. Stile Olivetti: il pensiero che si realizza, Hapax, Torino 2016, p. 83; D. Scodeller, Negozi…, cit. pp. 113-118. Per un profilo della figura dell’architetto e artista, cfr. L. Magagnato et al., Ugo Sissa (1918-1980), Publi-Paolini, Mantova 1984.

[22] Red., Organizzazioni commerciali all’estero / Olivetti Argentina S.A, in «BI- Bollettino Interno», febbraio 1941, pp. non numerate (AASO, biblioteca). Nella rubrica “Notiziario” dello stesso fascicolo è pubblicata anche un’immagine del negozio di Curitiba.

[23] Red., I negozi del dopoguerra, in  «BI- Bollettino Interno», s.d. (1946/47), p. 23. (AASO, biblioteca): «A Bologna, Genova Torino, Napoli, Bolzano, Catania, Lecco, Cuneo, Caserta i negozi riappaiono al pubblico nel loro aspetto migliore. A quelli già esistenti si sono allineati in armonia di stile e di gusto i negozi delle nuove agenzie di Pistoia, Chiavari e Domodossola, mentre in questo senso sono in via di trasformazione quelli di Livorno, Brindisi, Pescia e Trapani».

[24] Bernasconi e associati architetti e ingegneri, Bernasconi e associati architetti e ingegneri B & A, in proprio, Milano s.d. (1970 ca.), pagine non numerate.

[25] R. Musatti, L. Bigiaretti, G. Soavi, a cura di, Olivetti 1908-1958, cit., p. 127.

[26] Cfr. L. Gibello, P. M. Sudano, Annibale Fiocchi architetto, Aión Edizioni, Firenze 2007.

[27] Cfr. la nota biografica in Ordine degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori della provincia di Milano, 55/05 Cinquant’anni di professione, Electa, Milano 2006, p. 64. Coda è scomparso nel 2012.

[28] Colloquio con il figlio Giovanni del 10.9.2017.

[29] R. Bazzoni, Negozi, G.G. Görlich, Milano 1961, pp. 181-202.

[30] Ibidem, p. 183.

[31] AASO, Fondo Società Olivetti, Presidenza, Corrispondenza, Corrispondenza Presidenza per destinatario: BER – BERT, lettera di Adriano Olivetti a Gian Antonio Bernasconi, 24/9/1959.

[32] M. Tafuri, Storia dell’architettura italiana 1944-1985, Einaudi, Torino 1986, p. 51.

[33] M. De Giorgi, E. Morteo, Olivetti: una bella società, in Id. (a cura di), Olivetti: una bella società, Allemandi, Torino 2008, p. 45.

[34] Per qualche ragguaglio, cfr.:  R. L. Sobral Anelli, Gosto moderno: o design da exposição e a exposição do design – Modern Taste: Exibition Design and Design Exibition, in «ARQtexto», n. 14 – 2009, pp. 92-109 (https://www.ufrgs.br/propar/publicacoes/ARQtextos/pdfs_revista_14/04_RA_gosto%20moderno_070210.pdf  – Consultato 6 ottobre 2017); A. Coelho Sanches, A obra de Giancarlo Palanti em São Paulo, in «Arquitextos», dic. 2002 (http://www.vitruvius.com.br/arquitextos/arq031/arq031_01.asp – Consultato il 6 ottobre 2017).

[35] Cfr.: Red., Due negozi Olivetti in America, in «Domus», n. 342 – maggio 1958, pp. 12-14; R. Aloi, Mercati e Negozi, Hoepli, Milano 1959, pp. 154-157; C. C. Fiorentino, Congegni sapienti…, cit., pp. 70-73 e 76-77.

[36] Cfr. in part.: G. Ponti, Italia a New York: Un nuovo negozio Olivetti, in «Domus», n. 298  – settembre 1954, pp. 3-11; G. Tomaioli, Il negozio più bello della V Strada, in «Notizie Olivetti», n. 18 – giugno 1954, pp. 5-11.

[37] Cfr. F. Dal Co, L. Borromeo Dina, a cura di, Negozio Olivetti, in edibus, Vicenza 2011, cui si rimanda anche per l’ampia bibliografia sull’opera più conosciuta e fortunatamente salvaguardata.

[38] Cfr. in part.: M. Cerruti, Il negozio della Società Olivetti a Parigi, in «L’architettura cronache e storia», n. 87 – gennaio 1963, pp. 592-595; A. Piva, V. Prina, Franco Albini 1905-1977, Electa, Milano 1998, pp. 351-352; D. Scodeller, Negozi…, cit., pp. 130-135.

[39] Cfr. in part.: R. Pedio, Negozio Olivetti a Düsseldorf, in «L’architettura cronache e storia», dicembre 1961, pp. 524-527; R. Musatti, Il negozio Olivetti a Düsseldorf, in «Domus», n. 394 – settembre 1962, pp. 9-14.

[40] Antonio Monestiroli, L’architettura secondo Gardella, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2010 (1° ed. Laterza 1997), pp. 154-155.

[41] E. Bonfanti, M. Porta, Città, museo e architettura. Il Gruppo BBPR nella cultura architettonica italiana 1932-1970, Vallecchi, Firenze 1973, p. 143.

[42] Luciano Gallino in P. Ceri, a cura di, Luciano Gallino. L’impresa responsabile…, cit., p. 8.

[43] Antonio Monestiroli, L’architettura secondo Gardella, cit., p. 20.


Stefano Zagnoni, nato nel 1954, è professore associato di Storia dell’architettura  e dall’anno accademico 2012/2013 è in servizio presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara.
Dal 1993 al 2012 ha svolto la sua attività presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Udine. Qui, a partire dal 1997, ha tenuto gli insegnamenti di storia dell’architettura nei corsi di studio in Ingegneria civile, dove, a partire dal 2002, ha tenuto anche insegnamenti di disegno nei corsi di studio in Architettura e Ingegneria civile. È stato ì membro del collegio docenti del Dottorato di ricerca in Ingegneria civile-ambientale-architettura. Negli stessi anni ha ricoperto incarichi didattici e svolto attività di ricerca anche presso altri atenei (università di Bologna e Ferrara, Politecnico di Milano) e collaborato con enti pubblici e privati.
L’attività di ricerca è principalmente applicata alla storia dell’architettura italiana in età contemporanea, con casi di studio riguardanti il territorio nazionale, il bacino del Mediterraneo e gli ex-possedimenti coloniali.
In conseguenza dei contestuali interessi nel settore del Disegno, una peculiare attenzione è stata riposta all’apporto che l’interazione fra le discipline storiche e della rappresentazione fornisce all’analisi di sistemi insediativi, organismi architettonici, emergenze monumentali.
Ha curato vari volumi e ha pubblicato numerosi saggi ed articoli in libri e riviste di settore.

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