Grazie a Federico Butera, olivettiano di primissimo piano e autore dell’importante volume “Organizzazione e società. Innovare le organizzazioni dell’Italia che vogliamo”, Marsilio 2020 e all’autorizzazione dell’editore, che ringraziamo, ne pubblichiamo il secondo capitolo “La nascita della sociologia dell’organizzazione italiana alla Olivetti. Capire e cambiare le organizzazioni produttive“.
Si tratta di uno scritto molto significativo soprattutto perché l’autore, che è stato dirigente della Olivetti nella Direzione del Personale e poi a capo del Servizio Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione, ha accompagnato la nascita delle isole di montaggio e il passaggio dalla meccanica alla elettronica in produzione, di cui lo scritto tratta.
Ma tutto il volume è da leggere per chi è interessato alla storia delle scienze organizzative e a come negli ultimi quarant’anni siano cambiate le organizzazioni private e pubbliche in Italia; al rapporto tra scienze sociali e i possibili progetti di cambiamento necessari al nostro Paese; alla “società integrale” di stampo olivettiano; al raffronto tra il modello Olivetti e il modello Toyota; alle “best practice” italiane; a come la Pubblica amministrazione potrebbe diventare risorsa per lo sviluppo dei servizi e a tanti altri argomenti in campo organizzativo, come si può vedere nell’indice del volume. Il volume propugna per il futuro una presa in carico della “questione organizzativa” in Italia, ossia la necessità di rigenerare e innovare le organizzazioni private e pubbliche progettando insieme tecnologia, organizzazione e lavoro perseguendo insieme obbiettivi di produttività, sostenibilità, qualità della vita.
ESTRATTO
Prefazione
La rigenerazione e innovazione delle organizzazioni come questione nazionale: una proposta
Italy by Design, la politica dei progetti che fanno avvenire le cose
Introduzione
Che cos’è questo libro: guida alla lettura
Un’autobiografia scientifica; un capitolo nella storia dell’Italia come società di organizzazioni; la strumentazione per progettare e gestire 6
Parte prima
Un capitolo di una storia delle scienze organizzative e del cambiamento delle organizzazioni in Italia nella seconda metà del XX secolo
Il drammatico percorso per riportare le persone e le società dentro le organizzazioni e per valorizzare la società attraverso le organizzazio
Capitolo 1
Le organizzazioni del XXI secolo e il bisogno di scienze sociali per progettare l’Italia
Capitolo 2
La nascita della sociologia dell’organizzazione italiana all’Olivetti Capire e cambiare le organizzazioni produttive
Capitolo 3
Quarant’anni di innovazione e cambiamento delle organizzazioni private e pubbliche in Italia
La storia di Irso–Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi
Bibliografia
Parte seconda
Come si fa a progettare e gestire le organizzazioni di nuova concezione
Grammatica, sintassi, modelli per cambiare le organizzazion
Capitolo 4
La scoperta dell’organizzazione reale e il modello 4C L’irruzione della società nelle organizzazioni
Capitolo 5
Le microstrutture della produzione: dai reparti taylor-fordisti ai team autoregolat
Capitolo 6
L’organizzazione dei servizi
La relazione fornitore-cliente come forza produttiva
Capitolo 7
L’organizzazione per l’innovazione a 360 gradi
L’emozione e la regola nella Ricerca e Sviluppo e nell’open innovation
Capitolo 8
Le reti di organizzazioni
Progettare e gestire un nuovo soggetto collettivo
Capitolo 9
Reti digitali di organizzazioni reali
La progettazione congiunta di tecnologie digitali e di organizzazione
Bibliografia
Parte terza
Verso l’impresa integrale che ha un’anima e una responsabilità sociale
Economia e società nell’impresa italian
Capitolo 10
Dall’impresa responsabile all’impresa integrale
Il caso Olivetti e il caso Toyota
Capitolo 11
Le migliori imprese italiane possono fare scuola: l’Italian Way of Doing Industry
Bibliografia
Parte quarta
La Pubblica Amministrazione come risorsa per lo sviluppo dei servizi per il Paese
Dalla riforma della PA alla gestione del cambiament
Capitolo 12
Innovazione e cambiamento della Pubblica Amministrazione
Bibliografia
Parte quinta
La progettazione partecipata di organizzazioni, tecnologia, lavoro
“Verum et factum convertuntur
Capitolo 13
Il change management strutturale
Approccio, metodi e casi 210
Capitolo 14
Progettare insieme: un approccio e una proposta per la quarta rivoluzione industrial
Bibliografia
Postfazioni
Un libro sull’innovazione sociale (di Sebastiano Bagnara)
La progettazione sociotecnica 4.0 (di Emilio Bartezzaghi
Il rapporto tra organizzazione, produzione, competenze e mercati: come interi territori si riposizionano a livello globale (di Patrizio Bianchi)
La danza di tecnologia e organizzazione: un’esperienza di reciproco apprendimento e progettualità (di Giorgio De Michelis)
Il contributo di questo libro per i progettisti di tecnologia, per le aziende tecnologiche, per le aziende utenti di tecnologie (di Alfonso Fuggetta)
Considerazioni sul libro Organizzazione e società (di Gianfranco Dioguardi
Alla ricerca del Metodo: fra Sherlock Holmes e Jules Maigret (di Marcello Martinez)
Lo spirito dell’utopia (di Paolo Perulli
Esperienze progettuali orientate verso il futuro e ambienti riluttanti (di Gianfranco Rebora) 263
Sviluppare organizzazioni innovative usando metodi clinici e processi progettuali (di Alessandro Sinatra)
Innovazione dell’organizzazione e del lavoro e innovazione del quadro regolatorio di legge e di contratto collettivo: due percorsi da armonizzare (di Michele Tiraboschi) 264
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Capitolo 2
La nascita della sociologia dell’organizzazione italiana all’Olivetti
Capire e cambiare le organizzazioni produttive[1]
La sociologia dell’organizzazione e il change management in Italia nascono fra gli anni ’60 e ’70 all’Olivetti. Il fondatore della sociologia dell’organizzazione è Luciano Gallino, a capo del Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione dell’Olivetti. Nelle sue opere Gallino spiega con categorie sociologiche l’apparente miracolo di un piccola impresa di provincia che diventa un gigante internazionale con 40.000 dipendenti formulando la teoria dell’azienda processiva, una scoperta illuminante e tuttora valida per comprendere i fattori interni di sviluppo. Federico Butera eredita nel 1969 la guida del Servizio e, nell’accompagnamento del passaggio dalla meccanica all’elettronica e nella sostituzione delle catene di montaggio con le “isole di produzione”, aggiunge all’impianto concettuale e analitico della sociologia dell’organizzazione quello del “change management strutturale”. Le pagine che seguono sono anche una piccola storia organizzativa dell’Olivetti e affrontano il problema del rapporto fra spiegazione scientifica e suo uso nel favorire processi di trasformazione. Le grandi trasformazioni in corso nell’industria e nei servizi, dovute alla digitalizzazione, richiedono una comprensione delle specificità del contesto di ogni organizzazione. Dare un indirizzo a tali trasformazioni, poi, richiede anche l’adozione di pratiche professionali orientate all’azione.
Il caso Olivetti illustra questo fenomeno in una prospettiva forse diversa sia dalle pratiche consulenziali che propongono formule applicative generali sia dalle teorie generali, come quella indicata dal padre degli sudi organizzativi James March che, come già citato nell’intervista concessa a Delmestri[2], affermava: «Academic knowledge is fairly general and it tries to lay out the general causal structures of relationships. So it is not very good for dealing with a specific contextual situation».
Il capitolo descrive la nascita della sociologia dell’organizzazione e delle scienze organizzative in Italia avvenuta al Centro di Sociologia, poi Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione (SRSSO), all’Olivetti di Ivrea. Fondato da Alessandro Pizzorno, esso venne lanciato da Luciano Gallino nel momento di massima espansione dell’azienda con opere seminali che hanno spiegato le ragioni di quella crescita e hanno fondato quella disciplina in Italia. Dopo le sue dimissioni, il Centro venne diretto da Federico Butera durante il tumultuoso passaggio dalla meccanica all’elettronica.
Vengono analizzati i contributi scientifici fondativi del lavoro di Gallino basati sulla teoria dei sistemi e sulla cibernetica e le proposte dei nuovi modelli dell’azienda processiva e dell’impresa responsabile; viene descritto inoltre il ruolo che Federico Butera ebbe nell’analisi delle trasformazioni produttive e nella realizzazione delle “isole di produzione”, operando sull’“organizzazione reale” e utilizzando il metodo altamente partecipativo della ricerca-intervento.
Alcune caratteristiche della sociologia dell’organizzazione sviluppata in quegli anni sono: il rigore e le categorie dell’analisi della sociologia dell’organizzazione; il suo essere at the crossroad di diverse discipline; l’organizzazione come sistema in transazione biunivoca con l’ambiente; l’indagine sulla “biologia” dell’organizzazione non riducibile all’economia e alla tecnologia; la progettazione organizzativa come fenomeno sociale complesso; il ruolo dell’organizzazione nel contribuire a risolvere grandi problemi della società.
Nel 1960 Gallino era partito non da uno stato di crisi del Paese, ma da un suo momento magico e dal caso dell’organizzazione di maggior successo in quel momento in Italia, l’Olivetti di Adriano Olivetti. Il lavoro di Gallino parte dal tentativo di scoprire i segreti e le leggi di quel successo, non solo per assicurare a quell’azienda la permanenza e l’ulteriore sviluppo nel tempo, ma per offrire con una nuova scienza dell’organizzazione strumenti di analisi e di progettazione per altre organizzazioni pubbliche e private. Le scoperte sui fattori di sviluppo dell’impresa avrebbero potuto essere preziose per i policy maker, gli imprenditori, i sindacalisti dell’Italia degli anni ’60. Gallino fonda in Italia la scienza dell’organizzazione. Ma egli ha poi “cambiato mestiere” lasciando presto orfana la sociologia dell’organizzazione che aveva fondato.
Ecco alcuni cenni di questa storia, come l’ho conosciuta io.
Come Gallino sia stato reclutato da Adriano Olivetti resta una leggenda. La più suggestiva è che Gallino, che non era laureato, avrebbe lavorato in una pompa di benzina a cui Adriano Olivetti si sarebbe fermato e vedendo un giovane che leggeva opere molto impegnative lo avrebbe invitato per un colloquio. Non so se questo è vero: è certo che Adriano lo selezionò personalmente, lo apprezzò e lo assunse come risulta dalla prova grafologica che egli infliggeva ai suoi candidati e che Giuseppe Berta ha trovato fra le carte.
Gallino entrò a far parte dell’Ufficio Studi Relazioni Sociali, una struttura a quel tempo assolutamente inconsueta all’interno di un’azienda singolare, e poi lo ereditò da Pizzorno, ridenominandolo Centro di Sociologia.
Gallino, mentre continuava a svolgere ricerche su problematiche di relazioni industriali (fra cui quella sulle Commissioni Interne), a partire dagli anni ’60 conduceva la ricerca sul Progresso Tecnologico e Organizzativo (di qui in avanti PTO), conquistava la fiducia dei vertici Olivetti che, anche dopo la morte dell’ing. Adriano, gli affidarono il compito di monitorare e normare l’organizzazione formale. Il Centro di Sociologia diventò così Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione (SRSSO).
Quando nel 1962 io entrai in Olivetti, chiesi di vedere l’organigramma e i mansionari e mi risposero: «Non ci sono. L’ing. Adriano non li voleva». Ma i manager che succedettero a lui li volevano e li chiesero a Gallino che, con il suo PTO, aveva suscitato il loro interesse per l’analisi organizzativa. Il Servizio continuava tuttavia a fare ricerche fra cui quelle sull’assenteismo, condotte con un grande rigore metodologico. Nel 1965 Gallino divenne anche professore incaricato presso la Facoltà di Magistero e la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino e nel 1971 divenne ordinario. Ma l’Olivetti non lo nominò mai dirigente e di questo si dolse. Nel 1969 lasciò l’azienda, conservando però un rapporto di consulenza.
Luciano Gallino, quali che fossero le originali aspettative di Adriano nell’assumerlo, maturò l’ambizione non solo di spiegare i comportamenti e le relazioni industriali in azienda, ma di studiare e capire “l’economia e la società che stanno dentro l’organizzazione”, attingendo ai grandi pensatori della sociologia come Weber e Parsons e agli studiosi di teoria dei sistemi come Ashby.
Non si sa se per autocommittenza o per indicazioni di Adriano Olivetti, il tema su cui lavorò era relativo a un case straordinario: in che modo l’organizzazione interna dell’azienda aveva sostenuto la rapidissima crescita di un’azienda speciale che da media, se non piccola, era diventata in poco tempo una delle più grandi realtà italiane, passando in quindici anni da 5.000 dipendenti a 32.000. Quali erano stati i fattori che avevano reso possibile ciò? Certamente condizioni favorevoli di mercato e la genialità dell’imprenditore dovevano essere state rilevanti. Ma le condizioni interne dell’impresa, anzi dell’“azienda”, come amava ribadire spesso, devono esserestate fondamentali: l’oggetto della sua ricerca era proprio l’investigazione sulla “biologia” dell’azienda.
Condusse lo studio consultando un’enorme massa di documentazione riservata e vantandosi di averlo fatto tutto da solo. Oggetto dello studio furono proprio le condizioni interne di sviluppo dell’azienda, ossia a) condizioni strutturali come la Ricerca e Sviluppo, le straordinarie capacità produttive, il disporre di sistemi informativi all’avanguardia, la forza della rete commerciale, il brand, il design e altro: tutte aree in cui l’Olivetti aveva maturato competenze straordinarie; b) condizioni di funzionamento: come erano state integrate le diverse funzioni della struttura gerarchico-funzionale dell’azienda in una fase di intensa crescita e di relativa incertezza; c) condizioni di competenze: come si era espressa la singolare attenzione a reclutare le persone migliori, ad accettarne la ridondanza, a gestirle con cura e a motivarle.
In tal modo Gallino affrontava un tema di rilevanza generale: come fa a funzionare e a crescere un’organizzazione complessa ad altissimo tasso di mutamento dell’ambiente economico, commerciale e sociale esterno? Con il linguaggio di oggi, ci chiederemmo come un’ordinata burocrazia industriale si trasforma in un’impresa ambidestra, capace insieme di gestione e di innovazione.
Il punto dirimente della sociologia dell’organizzazione e delle scienze dell’organizzazione, prima e dopo Gallino, è che l’organizzazione complessa non è una derivata dei fattori economici, di mercato, di disponibilità di risorse strumentali e umane del Paese, ma ha una sua meccanica, anzi meglio una sua biologia interna. La sociologia dell’organizzazione anticipa la microeconomia. Gallino scrive: «Non è possibile spiegare in modo adeguato il comportamento di una grande impresa, e in specie, nel caso che ci concerne, il suo dinamismo espansivo, ove ci si limiti a esaminare le mutevoli condizioni del suo ambiente economico». Egli non trascurò l’importanza della macroeconomia, della politica, del diritto. Anzi, si impadronì con maestria degli strumenti concettuali di quelle discipline. Gallino concettualizzò quelle dimensioni come “ambiente esterno” ossia il concetto di environment che ritorna con varie nomenclature nei suoi lavori e che dieci anni più tardi Lawrence e Lorsh ad Harvard renderanno popolare: esso ha transazioni a due sensi nella nascita, nello sviluppo e nella morte dell’organizzazione.
Il fondamentale libro Progresso tecnologico ed evoluzione organizzativa negli stabilimenti Olivetti (1946-1956). Ricerca sui fattori interni di espansione di un’impresa (1960) è il lavoro in cui egli tenta questa operazione scientifica. Il volume descrive minutamente le numerose innovazioni specifiche che avevano accompagnato la crescita dimensionale dell’azienda: dall’inserimento dei primi trasportatori in officina alla metodologia commerciale, alla tecnica finanziaria di gestione, cose veramente disparate e che ricadevano in competenze molto diverse, dall’economista all’ingegnere. Gallino le descrive minutamente e con il linguaggio degli specialisti e cerca poi di calarle in un quadro unitario, un quadro di innovazione a 360 gradi.
Il primo aspetto di quel lavoro era “pedagogico”, come dichiarava nell’intervista che gli feci nel 1981 (Studi Organizzativi, 2015):
«Molti dirigenti hanno scoperto che l’avere le cose sotto gli occhi non significa per nulla conoscerle. Per conoscerle è necessaria una conoscenza concettuale che si aggiunge alla conoscenza per esperienza, anche se non la sostituisce. Questa componente fu molto esplicita e molto importante nell’esperienza Olivetti. Una delle ragioni per cui quel libro si fece fu che alcuni alti dirigenti dissero: “Qui non riusciamo più a conoscere noi stessi, quindi non sappiamo più cosa stiamo facendo”. Questo libro può darci un quadro di insieme che nessuno di noi ormai riesce più a padroneggiare. Ciascuno, che vive entro la società, non può dire per ciò stesso di conoscere le cause, gli effetti, le direzioni del suo sviluppo».
Per elaborare questa sintesi, Gallino adottò la concezione dell’organizzazione come sistema, utilizzando due modelli: il modello parsonsiano, che impiegherà anche in successivi lavori, e quello cibernetico di Ashby. Parsons individua quattro funzioni che un sistema (un’organizzazione) deve soddisfare in diversa misura per conservarsi e crescere ASIL, ossia: A, funzioni adattative (consonanza con l’ambiente esterno); S, funzioni di perseguimento degli scopi (performance); I, funzioni integrative (coordinamento e controllo; integrazione culturale e valoriale); L, latenza (conservazione del modello e mantenimento delle strutture motivazionali). Il modello cibernetico a sua volta è contraddistinto dalla presenza di due fattori: la regolazione e il controllo rispetto a eventi esterni e interni, tra loro interrelati.
Il modello parsonsiano aiutò Gallino ad affrontare il primo quesito della sua ricerca: come ha fatto una struttura fortemente gerarchico-funzionale come l’Olivetti a “tenere insieme i pezzi”, ossia a ottenere il massimo di prestazioni dalle diverse funzioni aziendali entro un percorso di forte mutamento che alterava continuamente anche le loro relazioni; soprattutto come è avvenuta l’integrazione fra funzioni a cui venivano chieste sempre più sfidanti e nuove performance, che trasformavano continuamente il loro rapporto con l’esterno in un percorso che cambiava non solo i processi ma anche l’identità professionale delle persone e il modello di impresa. Il modello cibernetico gli consentì di affrontare il paradosso di un sistema in continuo movimento e trasformazione ma che mantiene la sua identità. Scrive Gallino:
«Un’azienda industriale è vista come un complesso sistema sociotecnico, entro il quale una quantità variabile di materiali, energie (ivi inclusi molti aspetti del lavoro) e informazioni circolano ininterrottamente tra gli elementi che la compongono, ciascuno dei quali ne cura in variatissime forme l’elaborazione, la trasformazione e la trasmissione, in vista degli scopi unitari del sistema».
Ossia l’organizzazione come sistema di processi e non solo di autorità.
Come lo stesso Gallino ricorda nell’intervista citata poco sopra, il suo lavoro, iniziato prevalentemente per studiare la macrostruttura formale si estese anche ad analizzare l’organizzazione del lavoro e i contenuti del lavoro. In quelle pagine Gallino analizza il rapporto uomo/sistema andando oltre al fondamentale lavoro sulle Officine Renault di Touraine che aveva studiato il rapporto uomo/macchina. In modo anticipatorio spiega che l’automazione non è una mera sostituzione di lavoro umano con la macchina, ma la creazione di nuovi sistemi in cui gli uomini assolvono a nuove funzioni. Egli ridefinisce in una modalità ampia per quei tempi il concetto di progresso tecnologico che «implica una mutazione di conoscenze tecniche con conseguente adozione di una nuova linea di orientamento logico-empirico nei confronti della materia, che consente di intervenire su di essa, con diversa e maggiore efficacia». Nel suo studio, fatto prima che fossero stati inventati i computer, Gallino anticipava in sostanza l’elemento che accomuna il funzionamento delle macchine e il lavoro dell’uomo: la conoscenza per progettare e gestire sistemi.
Con questo, Gallino fece un ulteriore passo per definire la specificità della sociologia dell’organizzazione rispetto all’economia: l’analisi delle componenti e delle relazioni specifiche di un sistema. Scrive a pag. 12 del PTO:
«L’aver impostato questo studio con prospettiva e ipotesi sociologiche prima ancora che economiche – pur sempre col dovuto rispetto della logica economica – ci ha condotti a isolare, nel piano del lavoro, due livelli nettamente distinti: l’uno corrispondente a dati aggregati o sintetici, l’altro a dati analitici intorno agli aspetti che interessava illuminare. Mentre l’economista, infatti, considera legittimamente l’impresa come un punto che si sposta alla ricerca della miglior combinazione (dei fattori) lungo una via tecnica o una curva di equilibrio, il sociologo delle attività economiche la vede come un sistema sociotecnico di inaudita complessità, composto a sua volta da un numero grandissimo di sotto-sistemi: il comportamento e l’evoluzione dei quali non possono mai venire descritti e spiegati in dettaglio partendo dal comportamento e dall’evoluzione del sistema maggiore nel suo insieme; così come questi, a loro volta, non sono mai definibili o spiegabili come una sommatoria o una combinazione algebrica di quelli».
Fra i capisaldi della fondazione della sociologia dell’organizzazione in Italia vi è Personalità e industrializzazione del 1968, a mio avviso il migliore di tutti i suoi libri. È un piccolo trattato di sociologia economica (credo il primo in Italia) rigoroso e sintetico come un trattato di fisica, che era destinato ai suoi studenti ma completava la sua rappresentazione dell’azienda come sistema con la sua variabile più importante: gli uomini, che nel PTO erano evocati come variabili del sistema e come ombre. Egli, riprendendo la loro complessità e corposità, nell’introduzione al volume scrive:
«L’intento principale di questo libro è impostare un’analisi sociologica per quanto possibile rigorosa dei rapporti che intercorrono fra industrializzazione e educazione, tramite la mediazione di personalità tipiche che la prima richiede e la seconda, adeguandosi o meno a tali richieste, tende a formare. […] Gli scolari e gli studenti esposti oggi all’influenza selettiva e formativa della scuola saranno domani operai, amministratori, dirigenti tecnici, imprenditori. Se saranno buoni (operatori) non dipende solo dalle conoscenze intellettuali e professionali ma dal tipo di motivazione che porteranno nel lavoro».
L’impianto rigorosamente strutturalfunzionalista (che echeggia Famiglia e socializzazione di Parsons), per cui le persone sono quelle che devono servire alla società in una delle quattro funzioni ASIL, è poi mitigato nel testo per la considerazione della capacità di innovazione, violazione, contestazione, irrazionalità che i soggetti portano nella società, talvolta con effetti benefici e trasformativi. Sul ruolo dell’attore sociale nei sistemi organizzativi e nella società, Gallino tornò con un lungo e criptico libro con lo stesso titolo, attingendo alla biologia, alla medicina, alla psicologia, all’informatica.
Nel volume Indagini di sociologia economica del 1972, Gallino fece un ulteriore passo nella costruzione di una sociologia dell’organizzazione e di una scienza dell’organizzazione: quello di individuare, anche sulla base del caso Olivetti, un modello di azienda da proporre per la progettazione: l’azienda processiva.
Due caratteristiche specifiche contraddistinguono principalmente l’azienda processiva: la capacità di crescita connaturata alla sua organizzazione (oggi diremmo la sua energia) e il rapporto tra gli addetti alle attività indirette (come le vendite, gli approvvigionamenti, la finanza) e gli addetti alle operazioni dirette (come la fabbricazione, la manutenzione), che è superiore a quello che accade normalmente negli altri tipi di imprese (oggi diremmo gli investimenti in conoscenza).
L’organizzazione come sistema, l’analisi delle interazioni fra le componenti interne dell’organizzazione, il rapporto dell’organizzazione con l’esterno sono il fondamento di una scienza dell’organizzazione specifica: questa relativa “autonomia dell’organizzazione” è il primo elemento che fa – secondo me – di Gallino il fondatore legittimo della sociologia dell’organizzazione e delle scienze dell’organizzazione in Italia. Egli anticipa le caratteristiche del sistema “operazionalmente chiuso”, ossia quello per cui le sue caratteristiche originarie non sono dipendenti dall’esterno: di ciò parleranno Maturana e Varela per definire cos’è un essere vivente. Per usare una metafora, il calore del Sole o della chioccia sono essenziali per far schiudere le uova, ma solo la biologia dell’uovo fecondato è ciò che genera il pulcino. Il secondo elemento è l’analisi empirica e qualitativa di un caso, come quello del suo studio sull’Olivetti, che ne fa una scienza empirica come la clinica medica lo è nel campo della medicina. Il terzo elemento è la progettualità: il modello dell’azienda processiva derivato dall’analisi empirica viene ritenuto tendenzialmente riproducibile.
Si delineano così i fondamenti di una scienza dell’organizzazione che non sia solo un “di cui” delle scienze economiche, giuridiche, politologiche. L’organizzazione è un’entità collettiva dotata di qualche formalizzazione costituita per raggiungere fini. Un’organizzazione si distingue per questo dalle istituzioni, dal mercato, dai gruppi primari, dai movimenti, dalle comunità, anche se in ogni organizzazione vi è una componente di ciascuna di esse e anche se l’organizzazione vive in una continua interazione con esse.
La definizione di organizzazione che Gallino presenta nel suo Dizionario di sociologia è ancora un riferimento per gli studenti e per gli studiosi. Per Gallino, tre sono le accezioni attribuite al termine “organizzazione”: O1, un’attività organizzatrice; O2, un soggetto collettivo; O3, una struttura. Così le definisce nel Dizionario:
«O1 si adopera per designare l’attività diretta di proposito a stabilire, mediante norme esplicite, relazioni relativamente durevoli fra un complesso di persone e di cose in modo da renderlo idoneo a conseguire razionalmente uno scopo; O2 per designare un’entità concreta del sistema sociale che risulta da tale attività: un partito politico, un’azienda, una chiesa, un ospedale, un sindacato; O3 per designare la struttura delle principali relazioni formalmente previste e codificate entro un partito, un’azienda […]: in tal senso si parla di organizzazione del Partito Socialista, della Chiesa cattolica, ecc. Quest’ultima è sinonimo dell’accezione restrittiva dell’organizzazione formale».
(Dizionario di sociologia, voce “Organizzazione”, punto A).
O1. L’attività organizzatrice, consistente nell’ordinare le attività nel tempo, nello spazio e nell’impiego delle risorse come dice Weick, è una dimensione sociologica fondamentale il più delle volte solo immersa in modo indistinto nella prassi o nelle prescrizioni elaborate dall’economia aziendale, dall’ingegneria, dalle pratiche di management: salienza sociologica, perché l’agire organizzativo riguarda la ricerca dei modi più adatti – nei diversi contesti e nelle diverse circostanze – per agire ruoli al fine di cooperare, condividere, le conoscenze, coordinare, generare senso e comunità fra le persone, dimensioni sociologiche che chi scrive ha definito modello 4C. L’attività organizzatrice nelle organizzazioni reali è un insieme di prassi per la regolazione dei comportamenti e delle azioni che può derivare da leggi, procedure, sistemi tecnologici, prescrizioni gerarchiche, ma in gran parte è il frutto delle conoscenze esperte e tacite, delle competenze, delle esperienze, delle memorie, delle intuizioni, delle pratiche individuali e di gruppo e soprattutto della coscienza del fine da raggiungere. Il passaggio da un modello di organizzazione a uno diverso è spesso il risultato di un movimento secondo Alberoni o di un percorso di progettazione secondo Butera.
O2. La nostra società è costituita da un gran numero di organizzazioni, ossia da soggetti collettivi riconoscibili dotati di una personalità giuridica e/o economica e/o sociale. Alcuni sono soggetti legalmente riconosciuti, come imprese, Pubbliche Amministrazioni, scuole, associazioni, fondazioni, partiti. Altri sono soggetti legittimi, ma non legalmente costituiti, come gruppi culturali, sportivi, religiosi, morali. Alcuni sono soggetti spesso molto ben organizzati e potenti ma illegali, come una cosca mafiosa o un’organizzazione per il traffico dei migranti. Vi sono numerose tipologie organizzative che distinguono le organizzazioni in base ai fini, al settore, all’area merceologica, alla dimensione, all’estensione geografica. Vi sono organizzazioni semplici, organizzazioni complesse, organizzazioni a rete, sistemi industriali, piattaforme produttive e molto altro. Sono questi gli oggetti delle scienze organizzative, non solo le aziende industriali che ovviamente hanno caratteri assenti in altre organizzazioni.
O3. La struttura non è data solo dai componenti funzionali, dai suoi mansionari e dai suoi organigrammi, dalle sue relazioni cibernetiche rappresentate nei processi e nelle procedure, ma anche da un modello più o meno stabile dei componenti dell’organizzazione e delle relazioni tra le persone. Tale modello è dato dall’insieme di teorie, leggi e strumenti accettati universalmente, da un’“unità stilistica”, una cultura, un’ideologia riconoscibile e riproducibile, in una parola da un paradigma (Kuhn). Molte sono le metafore che sono state usate per rappresentare i modelli organizzativi: l’organizzazione come macchina, l’organizzazione come organismo, l’organizzazione come sistema aperto e altre ancora (Morgan).
Ciascuna delle tre accezioni indicate da Gallino è oggetto di studio e di pratiche da parte dell’economia, della psicologia sociale, della sociologia del lavoro, del diritto, dell’ingegneria gestionale: ma la loro integrazione reciproca entro un modello unitario e la loro progettazione/gestione sono il campo privilegiato della sociologia dell’organizzazione.
Colpisce in questi lavori di Gallino che, nel tentativo di analizzare e interpretare variabili rigorosamente analizzabili nella sua rappresentazione sistemica e cibernetica dell’organizzazione, non trovino spazio dimensioni sociologicamente rilevanti come il potere, il sistema degli interessi, il conflitto, la violenza, l’irrazionalità. Quasi che il suo modello fosse in grado di esorcizzarle.
È infatti all’organizzazione formale che Gallino aveva dedicato i suoi studi in Olivetti e nei volumi citati, in quanto per lui questa era costitutiva del sistema sociale. Minore attenzione egli dedicò alle dimensioni non formali dell’organizzazione, entrando anche in aperta polemica con Gouldner (Dizionario di sociologia, voce “Organizzazione”, alla fine del punto B) che aveva identificato l’organizzazione naturale come alternativa al concetto di organizzazione informale (cavallo di battaglia della scuola delle Human Relations) che invece Gouldner giudicava “un concetto squinternato da caffè”. Gli sviluppi successivi degli studi organizzativi in Italia, da Bonazzi a Butera, partirono dai fondamenti fissati in quegli anni da Gallino, ma si estesero a studiare la “società che c’è dentro l’organizzazione” e le forme non formali di organizzazione, come le organizzazioni organiche, i gruppi di lavoro, le comunità di pratiche, le reti organizzative e altro.
Certamente influenzato più da Gouldner che da Gallino, elaborai il concetto di “organizzazione reale” nella ricerca sulle acciaierie di Terni e in ricerche successive (Butera, 1979, 2009). Essa appare costituita da diversi “strati coesistenti” di organizzazioni, ossia di strutture di regolazione che rimangono debolmente connesse fra loro (Weick) finché prevale la cultura burocratica, ma che devono essere invece integrate in situazioni di elevate performance, di servizi critici, di cambiamento: ciò è possibile se sono attivati processi sociali di cooperazione, comunicazione, scambio di conoscenze, senso di comunità.
Approfondiremo questi concetti nel Capitolo 4. Per ora limitiamoci a dire che la sociologia può contribuire non solo a comprendere ma anche a progettare l’organizzazione reale, non solo studiando e disegnando organigrammi, posizioni e mansioni, ma ridisegnando i processi, i ruoli reali, l’organizzazione del lavoro, l’uso appropriato delle tecnologie, la formazione, la gestione delle persone, la comunicazione e molto altro, tutti sistemi di regolazione dedicati a conoscenze, capacità, responsabilità, motivazioni, percezioni, interessi, persone vere: altro che organizzazione informale, dimensioni soft, azione organizzativa con cui sono stati coperti questi buchi concettuali dalla manualistica e dalle metodologie di management education. Questo definisce la specificità (e forse la superiorità) della sociologia dell’organizzazione rispetto alle management sciences.
Tutte le componenti di quella che ho chiamato organizzazione reale sono state descritte, e molte di esse studiate, da Gallino: ma il non averle trattate in modo unitario non ha certamente contribuito ad affermare la specificità della sociologia dell’organizzazione come scienza e come pratica. Se egli avesse continuato a occuparsene lo avrebbe certamente fatto. Ma dalla fine degli anni ’70 Gallino si è occupato di altro.
E qui vengo ad abbozzare una delle risposte strutturali al quesito: “Perché Gallino ha fondato la sociologia dell’organizzazione, ma l’ha presto lasciata orfana?”.
Questa accezione ampia di organizzazione reale che ho presentato può generare ipotesi e progetti di ricerca specifici, ma non le prove scientifiche che Gallino cercava. È difficile anche progettare organizzazioni così rappresentate. È anche difficile dare ricette ai manager. Quello che cercava Gallino in realtà era una sociologia dell’organizzazione che avesse lo stesso statuto di scienza esatta della fisica o la stessa precisione dell’informatica. Il mio ragionamento fino a qui mostra che questo non era possibile, tuttavia era possibile sviluppare una scienza dell’organizzazione come organismo biologico. Ma c’è una seconda e più profonda ragione strutturale. L’organizzazione reale vivente, proprio come l’organismo umano, non può essere pienamente oggetto di scienza, esatta ma forse di una forma di scienza e pratica professionale chiamata clinica. Questo avveniva in quegli anni con Crozier in Francia, con la Woodward ed Emery in Gran Bretagna, con Scott negli Usa. Ma la sociologia italiana, in quegli anni fortemente influenzata dalla sociologia critica e con lo statuto di “inferma scienza”, non fece questo passo, lasciando così il campo ad altre aree disciplinari come l’ingegneria gestionale, l’organizzazione aziendale, la psicologia sociale, il diritto, le management sciences.
La questione dell’impresa responsabile
La molteplicità dei fini (economici, tecnici, sociali) e la pluralità dei sistemi di regolazione (formali e non formali) definiscono la peculiarità di una organizzazione. L’Olivetti fu un’organizzazione dotata di un modello peculiare. Famosa è la frase di Adriano Olivetti: «Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?».
Una storia diversa da quella dell’“impresa processiva”, che descrive la biologia dell’azienda e che Gallino ritiene di aver rilevato nella sua indagine, è quella dell’“impresa responsabile” (versus l’impresa irresponsabile) su cui Gallino scriverà molto a partire dagli anni ’90, un costrutto ottativo sganciato da una base empirica, un idealtipo, ma di grande forza evocativa.
Scrive Bonazzi notando quanto Gallino fosse pesantemente influenzato dalla sua esperienza presso l’Olivetti:
«Per molti decenni egli vide in questa azienda l’esempio paradigmatico di “impresa responsabile”, capace di conciliare la ricerca del profitto con gli interessi sociali della comunità gravitante intorno ad essa. Quando però la Olivetti, dopo drammatiche vicende, fu comprata e fatta a pezzi da operatori soltanto bramosi di lucrare sui suoi resti, assistiamo a una divaricazione quasi manichea del discorso di Gallino: da un lato la nostalgica rievocazione dei tempi d’oro di Adriano Olivetti, dall’altro la veemente denuncia del nuovo capitalismo finanziario e dell’“impresa irresponsabile” che da esso prende vita»[3].
Bonazzi parla di una sindrome dell’amante tradito.
Io non ho conosciuto Adriano Olivetti, ma ho conosciuto l’azienda che lui ha lasciato: era un’azienda che continuava a farsi questa domanda. Io l’ho definita un’“impresa integrale”, un concetto privo di connotazioni moralistiche, ma costituente una forma di organizzazione reale caratterizzata dalla peculiarità dei suoi fini (con un equilibrio virtuoso fra fini economici e sociali) e dei suoi sistemi di regolazione (con un grande rilievo dei sistemi professionali e la cultura) (Butera, 2010a). Un modello di impresa in cui l’eccellenza economica viene ottenuta non malgrado ma in virtù dell’eccellenza sociale, e in particolare della qualità della vita dei lavoratori e della preservazione dell’economia e della società tradizionali del territorio.
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- Il Servizio Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione dopo Gallino: una storia in più atti
Provo a descrivere il lavoro e i risultati del SRSSO che avevo ereditato da Gallino.
Atto 1°. Butera va al Centro di Sociologia durante il passaggio della Olivetti dalla meccanica all’elettronica
Gallino nel 1969 si dimise. A me chiesero di prendere il suo posto, dicendomi che erano in corso grandi cambiamenti organizzativi e che il SRSSO sarebbe stato molto utile. Malgrado il fatto che, ovviamente, la mia competenza scientifica non era minimamente paragonabile alla sua, temerariamente accettai.
Stava avvenendo infatti un terremoto. L’Olivetti, allora azienda di 40.000 dipendenti, a causa della concorrenza delle macchine da ufficio elettroniche giapponesi, vedeva sfidare la sua tecnologia di base di prodotto e di produzione: dai pezzi di ferro ai chip. Erano in corso esperimenti localizzati di riorganizzazione nei montaggi e nelle officine per fronteggiare il cambio nei sistemi di produzione di prodotti per metà ancora meccanici e per metà elettronici, con cui ogni quattro mesi l’Olivetti in difesa cercava di fronteggiare l’offensiva delle piccole calcolatrici giapponesi vendute a un cinquantesimo del prezzo di quelle meccaniche della Olivetti.
In quello stesso 1969 Giancarlo Lunati, diventato capo della Direzione Relazioni Aziendali, in accordo con il direttore di produzione Umberto Gribaudo, incaricò il SRSSO di seguire gli esperimenti in corso in produzione con l’obiettivo di analizzarne il contenuto, gli effetti sulle persone, la generalizzabilità. Decisi che il ruolo del Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione avrebbe dovuto essere quello di accompagnare e promuovere il cambiamento basandosi su ricerche rigorose su ciò che stava realmente accadendo in produzione, invece di formulare modelli ottativi top-down. Ci ripromettemmo di analizzare i progetti pilota in corso per scoprirne la natura e riproducibilità, ossia la possibilità di diffusione.
Frattanto agli inizi del 1970 andai sei mesi negli Usa a studiare Organization and Job Design e the coming crisis for production management al Mit e a Harvard e poi a visitare circa 20 aziende coast to coast. Al ritorno scrissi I frantumi ricomposti. Ideologia e struttura del taylorismo in America, che ebbe successo.
Subito dopo il mio ritorno dall’America, intensificammo gli studi e gli incontri. Avevamo adottato l’approccio sociotecnico, che cercava di esaminare i fattori del sistema produttivo non isolatamente, ma nella loro interazione. Il primo elemento che ci consentì di conquistarci la fiducia e la credibilità presso il management di produzione fu la visione non limitata solo alla psicologia del lavoro animata da dieci anni dal lodevole desiderio di “ricomporre i frantumi”, quale quella poi presentata nella storia raccontata da Novara, Rozzi, Garruccio nel loro volume del 2005, che colpevolmente cancella dall’esposizione Gallino, Butera e il SRSSO e il processo di cambiamento che sto descrivendo. Venne proposta una visione strutturalista del cambiamento centrata su che cosa cambiava davvero nei processi produttivi e nell’ambiente tecnologico e sociale. Il secondo elemento fu quello di lavorare fianco a fianco con i tecnici e i dirigenti: infatti non bastava capire, occorreva gestire un processo drammatico di apprendimento e una battaglia di interessi e di cultura. L’approccio analitico che adottai era tributario dell’approccio sistemico di Gallino, dell’approccio sociotecnico e dell’analisi della qualità della vita di lavoro del Tavistock e dell’International Council for Quality of Working Life, nel cui Executive Committee ero frattanto entrato. Ma il metodo di ricerca-intervento che introdussi, ispirato a Kurt Lewin, era del tutto diverso da quello che aveva usato Gallino nel suo PTO: coinvolgere i tecnici e i dirigenti nell’analisi e nelle proposte e predisporci a gestire con loro il processo di selezione, progettazione e diffusione delle soluzioni.
Approfondiremo nel Capitolo 3. Dopo, chiamai questo approccio change management strutturale (Butera, 2009).
Atto 2°. La diagnosi e la nascita del progetto di change management strutturale
La diagnosi fu presentata nel rapporto finale del Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione del 1972, I mutamenti organizzativi del montaggio: un’analisi e una proposta di sviluppo pianificato degli interventi.
Presentammo questo rapporto al direttore di produzione Umberto Gribaudo. In esso, in sintesi, si diagnosticava l’emergere di un possibile nuovo modello di organizzazione della produzione, lo si descriveva a fondo, lo si suggeriva per la progettazione di un nuovo sistema di produzione, se ne proponeva il processo di diffusione. Ricordo che Gribaudo mi chiamò a casa alle 20:00: una telefonata del direttore di produzione a un giovanissimo dirigente, a casa e in un orario in cui si è a cena, era per un gentiluomo piemontese un evento del tutto inconsueto. Mi chiese di botto: «Butera, è sicuro che siamo noi che stiamo facendo tutte le cose che lei presenta?». Dissi di sì. «Venga a trovarmi domattina alle 8:00». Non erano i fatti e le soluzioni che lo colpirono, poiché li conosceva bene dato che li aveva autorizzati e promossi. Ma era il senso di un cambiamento sistemico basato su un paradigma nuovo e potenzialmente generalizzabile, in cui si ritrovò pienamente. Mi parve di essere riuscito a compiere quell’opera di disvelamento e di sistematizzazione di una realtà ben nota ai miei interlocutori che Gallino aveva fatto con il PTO, ma in più mi parve di aver indicato loro anche come fare. Da quella mattina partì il programma di cambiamento pianificato della produzione dell’Olivetti che passava dalla meccanica alla elettronica. Da quella mattina mettevamo in pratica il metodo di ricerca-intervento in un’azienda processiva.
Cominciò da allora il processo di gestione del cambiamento: dare cioè un senso generalizzabile a quelle esperienze concrete, valutarne gli impatti economici e sociali, comprenderne la generalizzabilità, valutarne l’impatto sulle funzioni aziendali, saggiarne l’impatto culturale.
Fu allora che si dette un nome a quel modello: “isole di produzione” (poi UMI – Unità di Montaggio Integrate), immagine che rompeva con il modello della lunga linea di montaggio con fasi di pochissimi minuti, sgretolando il pilastro del modello taylor-fordista che aveva dominato in Olivetti e altrove per oltre trent’anni. Nomina sunt substantia rerum: il termine “isole” suonò come una novità organizzativa importante.
Gli accordi fra azienda e sindacati centrati sulla qualificazione sostanziale aiutarono il cambiamento. Nell’aprile del 1971 era stato siglato l’accordo programmatico in cui l’azienda Olivetti si impegnava a presentare ai sindacati nuove forme organizzative al fine di arricchire i contenuti del lavoro. Si discuteva non solo di soldi e di qualifiche, ma di professionalità sostanziale. Le figure più importanti del sindacato come Trentin e Carniti avevano espresso grandi aspettative sul “nuovo modo di fare le macchine da scrivere e da calcolo”.
Molte erano le incognite e le difficoltà tecniche e organizzative del nuovo modello: piccole linee o posti unici, capi o primus inter pares, incorporazione dei controlli e riparazione nel lavoro diretto o loro assegnazione a operai diversi, rotazione sui posti di lavoro totale o parziale, specializzazione o meno delle attrezzature, responsabilità del gruppo di lavoro sul gestione del work in process e sul magazzino parti (che con l’elettronica avevano un valore incomparabile rispetto ai “pezzi di lamiera”) e molto altro.
C’era molta “fronda” da parte della vecchia guardia della produzione. A metà del 1972 promossi un incontro in via Clerici a Milano con tutto il vertice dell’azienda: in quella occasione il progetto delle isole fu approvato anche dall’amministratore delegato Ottorino Beltrami e con il contributo determinante delle argomentazioni del direttore della produzione Umberto Gribaudo e del capo del Centro Studi Economici dell’azienda Franco Momigliano. «Ti confermo il mio accordo sull’opportunità di un’azione incisiva per stimolare le trasformazioni organizzative» scrisse al temine del vertice l’amministratore delegato a Gribaudo.
Le isole di produzione vennero varate e si iniziò così a smantellare l’impianto dell’organizzazione scientifica del lavoro su cui viveva e prosperava un’azienda di 32.000 persone.
Nel 1972 Umberto Gribaudo costituì un Comitato per lo Sviluppo Organizzativo di cui faceva parte il SRSSO, con i compiti di:
- promuovere la documentazione e gli studi sui processi innovativi in atto nell’organizzazione del lavoro operaio e impiegatizio, nelle strutture formali, nei processi organizzativi;
- orientare e supportare le iniziative presenti e future di mutamento organizzativo pianificato;
- fornire assistenza su tutti gli atti formali implicanti modifiche organizzative;
- formare linee generali di politica organizzativa.
Le invenzioni e le sperimentazioni fluivano senza sosta da parte di dirigenti e professional – come Alberto Berghino, Gianola, Dionisio Albertin, Alberto Kirieleison, Pier Carlo Bottino, Luigi Pescarmona e tanti altri –, mentre gestivano il treno in corsa: gli esperimenti dell’Auditronic e della Logos rappresentavano il cambiamento attraverso progetti pilota, una modalità assolutamente inedita per un’azienda che aveva un onnipotente Ufficio tempi e metodi di oltre 100 persone.
Bisognava “portarsi dietro i capi” arricchendone le funzioni. Ma soprattutto bisognava prendersi cura degli operai arricchendo, sì, il loro lavoro, ma assicurando che tutti ce la potessero fare, che nessuno sarebbe rimasto indietro. Molti operai abituati a fare fasi di un minuto infatti temevano di non farcela. Le rappresentanze dei lavoratori erano esitanti e tendevano a monetizzare ogni arricchimento.
Anche alcuni fra i cinque sociologi del SRSSO avanzavano di continuo dubbi sull’estendibilità del nuovo modo di lavorare all’intera popolazione.
Latenti erano le invidie verso il SRSSO, che aveva preso la leadership del cambiamento, da parte del Centro di Psicologia che per primo e lodevolmente aveva predicato per contrastare il lavoro in frantumi. La determinazione a realizzare il progetto e lo straordinario impegno di formazione tacitò gran parte di timori, pregiudizi, scetticismi, invidie. La Direzione Relazioni Aziendali per tre anni fu coesa intorno a questo progetto concreto di change management, superò il tradizionale approccio sindacal/gestionale entrando nel merito dei contenuti dell’organizzazione e del lavoro: ora si direbbe che la DRA fu un business partner.
L’ampiezza e la radicalità delle trasformazioni organizzative non potevano non creare nuovi istituti normativi e nuove regole di comportamento collettivo. Fu il caso dell’accordo sul “premio UMI” che, una volta raggiunto, fu di tale soddisfazione sia per la direzione che per le rappresentanze dei lavoratori da rischiare di oscurare il progetto organizzativo a favore dell’accordo salariale.
Nel gennaio del 1973 venne organizzato per il management a tutti i livelli un Corso di job and organization design, con l’obiettivo di illustrare e approfondire metodologie di analisi e di mutamento pianificato dell’organizzazione. Come docente venne invitato il prof. Louis Davis, direttore del Quality of Working Life Program alla University of California, Los Angeles, mio maestro.
A metà del 1976, nelle officine era già stato trasformato il lavoro di circa 2.000 operai su 3.600. Alla stessa data, nelle Unità di Montaggio Integrate lavoravano circa 2.000 dei 5.000 operai dei montaggi.
Atto 3°. La scoperta e la costruzione di un metodo: i fattori strutturali che resero possibile il cambiamento. La conferma di Gallino sull’“azienda processiva”, un percorso diverso di intervento
Il cambiamento riuscì perché vi erano i fattori strutturali, come un radicale mutamento del mercato e della tecnologia, che rendevano obsoleto il vecchio modello di produzione di massa compatibile con prodotti che restavano in produzione per 5/8 anni, che talvolta avevano fino il 50% di quota di mercato mondiale, che creavano profitto attraverso una continua “limatura” dei tempi di lavoro operaio. Ora i nuovi prodotti stavano in produzione 6 mesi ed erano per metà fatti di chip. Ma fu necessario creare consapevolezza in chi era abituato a un altro modello produttivo.
Il cambiamento si avvalse di molti eventi precedenti: il primo, iniziato nel 1965, una serie di studi e proposte del Centro di Sociologia, del Centro di Psicologia e di giovani funzionari per superare il lavoro in frantumi, del prodigioso scrigno di competenze accumulato in decenni da tecnici e manager; il secondo il fiorire di esperimenti localizzati condotti da tecnici talentuosi, un lavoro per identificarne la riproduzione e diffusione degli esperimenti; il terzo il lavoro del SSRO che accompagnò e orientò il cambiamento; la pressione sindacale per l’innalzamento della qualificazione formale e l’accordo del 1969; la capacità manageriale e il coraggio del direttore della produzione Umberto Gribaudo; la visione innovativa di economia industriale di Franco Momigliano; la decisione del gruppo dirigente di vertice di procedere senza indugi.
L’azienda processiva diagnosticata da Gallino, che aveva assicurato la crescita, riappariva nella crisi: questa volta non in base a un inarrestabile e progressivo processo di crescita, ma a una risorsa strutturale e culturale adottata in una drammatica azione di salvataggio. L’azienda processiva di Olivetti sprigionò tutto lo scrigno di competenze che possedeva. Questa volta il Centro di Ricerca Sociologica e Studi sull’Organizzazione non si era limitato a produrre un libro ma aveva fatto ricerca di visibilità internazionale, consulenza, comunicazione, formazione, tutto in team con gli agenti di cambiamento e attivando un international college.
Atto 4°. Le battaglie
Forti furono le resistenze esplicite durante tutto il processo di cambiamento. Cruciali furono i bivi al termine della prima fase.
Nel corso di tutto il processo di cambiamento le resistenze erano venute soprattutto dall’establishment della produzione. L’argomento contrario principale era che le isole costavano più della linea tradizionale: maggior costo del lavoro, maggiore addestramento, maggior costo delle attrezzature. Ma sotto vi era anche il giustificato timore di uno sconvolgimento delle potenti funzioni aziendali come la qualità e i tempi e metodi.
Ostili erano alcuni rappresentanti sindacali: la nuova organizzazione del lavoro avrebbe richiesto più responsabilità per gli operai e più vantaggi per l’azienda. Il ruolo progettuale delle rappresentanze sindacali che si andava delineando non piaceva a tutti. Resistenze venivano anche sul metodo: questo modo di cambiare era estraneo alla cultura dell’ingegneria di produzione e dei tempi e metodi: ma Massimo Levi, che di quest’ultima era il capo, era un gran professionista di leggendaria competenza e fu il primo a convincere l’esercito dei suoi che ora l’organizzazione si doveva progettare e gestire in un altro modo.
Il modello di cambiamento era profondamente diverso da quello adottato da grandi corporation americane, inclusa la General Electric da cui veniva l’amministratore delegato Ottorino Beltrami. Si prospettava un bivio fra il cambiamento top-down di stile GE versus un processo di change management strutturale bottom-up e top-down quale quello che avevamo realizzato.
Vi erano resistenze all’interno della direzione del personale. Molti nella DRA non si sentivano parte del processo, e alla prima difficoltà operarono per far tornare la DRA nella sua funzione tradizionale, non troppo coinvolta con l’intervento nell’organizzazione.
Gian Antonio Gilli, in SRSSO fin dall’inizio con Gallino, non gradiva il ruolo che stavamo assumendo, che gli sembrava da “internal consultant”, “poco scientifico” e “troppo a servizio dell’azienda”, e influenzava di continuo in modo negativo gli altri quattro sociologi del SRSSO. Io fui meno bravo di Massimo Levi a convincere i miei e me li trovai contro proprio nel momento di massima fragilità del SRSSO.
Questa fragilità si mostrò quando si realizzarono due fatti. Il primo fu che l’amministratore delegato mi chiese di diventare il suo assistente, sciogliendo il SRSSO troppo poco normativo, troppo poco “direzione del servizio organizzazione” GE-like. Voleva che lo aiutassi a normare l’organizzazione in suo nome. Io insistevo che era meglio andare avanti con il metodo di change che stava dando risultati così buoni. Insomma rifiutai. Il secondo fatto fu che, in base a non so quali veline dei “servizi” con cui l’Ad era in contatto, mi fu chiesto di allontanare Gilli e gli altri dal centro in quanto estremisti. Io mi rifiutai, non solo perché Gilli era un amico a me intellettualmente e affettivamente vicino, ma perché la lezione di Adriano Olivetti e l’assunzione di 400 laureati mi aveva insegnato che in quell’azienda non si discriminano le idee. E soprattutto perché sapevo con certezza che non vi era nulla di pericoloso in quella persona di valore: era di estrema sinistra come tutti i sociologi in quegli anni e a Milano, nel clima del ’68, correvano certamente parole ardenti, ma l’Olivetti che amavo aveva incluso figure di sinistra in posizioni di responsabilità come Fortini, Momigliano, Volponi e altri. Questo doppio rifiuto di obbedire non fu gradito. L’ingegner Beltrami, che mi chiamava “il papà delle isole”, mi intimò ad horas di trasformare il SRSSO in un suo staff.
Contemporaneamente i miei collaboratori attaccavano dall’interno: scrissero una durissima nota, che conservo, in cui intimavano di sospendere le attività di change management e di tornare a fare studi sull’assenteismo o simili. Il SRSSO fu preso così da due fuochi: l’Ad da una parte e i membri dell’ufficio dall’altra. Il direttore di produzione difese a spada tratta il lavoro del SRSSO.
Ma era una battaglia di troppo, che rompeva l’immagine dell’“azienda processiva” e democratica in cui mi piaceva lavorare e minacciava l’identità scientifica e professionale che in quella straordinaria vicenda avevo acquisito. Il processo di cambiamento dell’azienda sarebbe continuato (come infatti continuò), ma forse l’esperienza mia e del mio Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione stava trovando un muro. Forse il nuovo management stava stravolgendo l’azienda che mi aveva insegnato tanto e che amavo, cosa che si rivelò vera. Decisi, a 33 anni, di dare le dimissioni per sviluppare il metodo e le soluzioni a cui avevo preso parte in quegli anni fantastici. Dopo pochi mesi fondai a Milano l’Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi, continuando l’esperienza di change management strutturale in altri contesti. Scrissi tanti articoli e libri. Nel 1988 venni nominato professore di prima fascia. In tempo per insegnare e fare ricerca, fuori tempo per costituire una comunità accademica intorno alla disciplina della sociologia dell’organizzazione che insegnai poi per 25 anni.
Atto 5°. Gli outcome scientifici
Diversi furono i prodotti della ricerca intervento che abbiamo rievocata.
Innanzitutto il mio libro I frantumi ricomposti: ideologia e struttura del declino del taylorismo in America del 1972, precedentemente citato, che fu originato dalle ipotesi che stavamo maturando nel progetto e che al progetto offrì la struttura concettuale.
Il mio articolo “Contributo all’analisi di variabili strutturali che influiscono sul mutamento dell’organizzazione del lavoro”, pubblicato su Studi Organizzativi e nel volume di Davis e Cherns The Quality of Working Life, fu tradotto in cinque lingue. Esso contiene, inoltre, il riferimento ad articoli e ricerche, anche esterne all’Olivetti, che fiorirono numerose intorno al progetto.
Le dimensioni più teoriche sulla natura dell’organizzazione, del lavoro e del cambiamento apprese durante il progetto apparvero in vari articoli poi raccolti nel mio La divisione del lavoro in fabbrica del 1977.
Il caso Olivetti è stato analizzato in Italia e all’estero da studiosi di diverse discipline, da Salvati e Beccalli a Kern e Schumann. La storia e i risultati del progetto sono stati descritti nel volume del 2011 Valorizzare il lavoro e sviluppare l’impresa. La storia delle “isole” della Olivetti nella rivoluzione dalla meccanica all’elettronica (Il Mulino, 2011). Includo fra gli outcome scientifici anche il cambiamento reale di un’organizzazione che ha abbandonato un paradigma dominante, quello della catena di montaggio taylor-fordista, e ne ha introdotto uno nuovo, quello dei gruppi di produzione ad alto livello di autoregolazione. Questo caso, narrato da me e da moltissimi altri, ha avuto una diffusione e un impatto internazionali tra i professional e gli studiosi molto superiori alla diffusione dei miei scritti.
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Una prima e diversa versione è stata pubblicata su Studi Organizzativi, 2/ 2016. ↑
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“La vita. James March talks to Giuseppe Delmestri”, op. cit. ↑
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G. Bonazzi, “Spiegare l’ultimo Gallino: la sindrome dell’amante tradito. L’impresa capitalista da tempio della razionalità sistemica a canaglia planetaria”, in Studi Organizzativi, 2/2016. ↑
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