LA FABBRICA ER UN BENE COMUNE. ESPERIENZE OLIVETTIANE
di Emanuela Proietti
1. Introduzione
Nel 1952, in Società Stato Comunità,1 Adriano Olivetti racconta di come
si arrivò in quegli anni alla redazione di una Carta assistenziale. Aveva promosso straordinarie iniziative sociali, sanitarie e culturali
per i lavoratori, ma una preoccupazione lo accompagnava: che «queste istituzioni non diventassero strumenti di paternalismo, fonte di privilegi, organi di selezione del tutto inadeguati».2
Quando il Consiglio di gestione della Olivetti pose la questione della posizione di questo complesso di attività assistenziali nei rapporti tra la società e il lavoratore, si giunse alla redazione della Carta. Essa rappresentava per Adriano un primo passo per sancire l’autonomia dell’attività sociale promossa e un suo razionale distacco dall’azione volontaria da cui aveva tratto origine, di chi l’aveva voluta: questa azione, riconoscendo la natura giuridica del nuovo diritto e, in definitiva, la naturale partecipazione del lavoro alla creazione della ricchezza aveva «cancellato il senso di inferiorità e degradazione che il gesto più generoso finisce per provocare negli animi delle persone diritte».3
Quel che più colpisce degli scritti di Olivetti è il suo grande rispetto
per la dignità del lavoro e dei lavoratori.
La Carta ha però un motivo di debolezza, a suo stesso dire: «presuppone
un alto grado di senso di solidarietà umana, sia nei proprietari, sia nei lavoratori. Oggi questo fortunatamente esiste, ma non vi è nessuna garanzia di stabilità».4
Viene redatto allora uno Statuto di fondazione autonoma, per poter immettere nell’amministrazione dell’assistenza di fabbrica elementi tali da garantire stabilità alle istituzioni consolidate e anche un alto grado di interesse scientifico
1 Adriano Olivetti, Società Stato Comunità, Roma, Edizioni di Comunità 2021 (ed. or.1952).
2 Ivi, p. 38.
3 Ibid.
4 Ivi, pp. 38-39.
Sulla base delle esperienze che si accumulavano, osservava ancora
che ogni problema di fabbrica diventava un problema esterno e giungeva
alla conclusione che solo chi avesse potuto coordinare i problemi interni
a quelli esterni sarebbe riuscito a trovare la soluzione corretta a tutte le
cose. Si può dire che Olivetti appariva quasi interdetto, perché aveva una
visione chiara, che non riusciva però a concretizzarsi, tanto da scrivere:
“Se io avessi potuto dimostrare che la fabbrica era un bene comune e non un
interesse privato, sarebbero stati giustificati trasferimenti di proprietà, piani
regolatori, esperimenti sociali audaci di decentramento del lavoro… Il modo di
equilibrare queste cose esisteva, ma non era nelle mie mani: occorreva creare una autorità giusta e umana che sapesse conciliare tutte queste cose nell’interesse di tutti. Questa autorità per essere efficiente doveva essere investita di grandi poteri economici, doveva, in altre parole, fare, nell’interesse di tutti, quello che io facevo nell’interesse di una fabbrica. Non c’era che una soluzione: rendere la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali” Nasceva allora l’idea di una Comunità.5 È un’aspirazione che viene non solo dal concepire l’impresa e la fabbrica come bene comune, ma nel considerare il loro ruolo centrale e determinante nello sviluppo democratico, culturale e valoriale di una comunità più ampia. L’impresa, nel progetto di Adriano Olivetti, deve essere associata a una vera comunità, divenendo così un centro di co-operazione e partecipazione di tutti coloro che vi sono interessati, in un modo o nell’altro, e che hanno in definitiva lo stesso fine: la libera
e armoniosa crescita della fabbrica e della comunità in modo tale che
«il lavoro di ogni giorno serva consapevolmente a un nobile interesse
umano».6
La questione, dunque, come spiega Cocozza, non è se l’impresa deve creare profitto, anzi, questa variabile rappresenta
la precondizione necessaria per poter affrontare meglio la competizione sul mercato, ma è piuttosto riferita alle modalità mediante le quali costruisce il ri-
sultato, ovvero alle politiche attraverso le quali realizza l’utile e alle politiche di ridistribuzione delle risorse ottenute.
5 Ivi, pp. 39-40. 6 Adriano Olivetti, Città dell’uomo. Nuova edizione rivista e accresciuta. A cura di Alberto Saibene, Roma, Edizioni di Comunità 2015, p. 169 (ed. or. 1960).
Insomma, la questione va analizzata da due diversi punti di vista relativi al ruolo dell’imprenditore nella società e al fatto che gli attori economici e sociali, in una rinnovata prospettiva di tipo partecipativo, pur mantenendo una propria autonomia e responsabilità, con ruoli chiari e non sovrapposti (in alternativa alle modalità consociative), tendono a mettere in campo politiche e azioni tese a salvaguardare l’impresa in sé come bene comune al di sopra
degli interessi di parte. Una prospettiva che non intende eliminare i possibili
conflitti, ineliminabili perché insiti nella distribuzione asimmetrica del potere informativo e decisionale tra le parti, ma che tenderebbero, invece, a gover-
narli e ad attenuarli, attraverso la definizione di un sistema di regole condiviseal servizio di una migliore governance aziendale.7
La domanda se l’esperienza Olivetti abbia rappresentato o rappresenti oggi un modello 8 sembra parzialmente, ma non del tutto, superata: perché, da una parte, è superata rispetto alle sue applicazioni in un contesto storico, economico, culturale e sociale completamente trasformato, non lo è, invece, dall’altra, rispetto alle intuizioni, ai valori, alla visione.
Bene lo spiegano La Rosa e Gosetti: quello che la Olivetti ci consegna, fuori da ogni dubbio, a chi di noi studia la qualità del lavoro e della vita lavorativa, è l’invito a porre attenzione a come abitiamo il lavoro. Come stiamo dentro un lavoro che ci appartiene, che possiamo vivere con gli altri
rendendolo un’esperienza sensata. Come trovare una corrispondenza con il
lavoro nelle sue diverse dimensioni, come poter commisurare lo spazio e il
tempo alle esigenze personali e alle nostre aspirazioni. Come rendere il lavoro occasione fondativa del progetto di vita, nelle sue diverse connotazioni mate-
riali e spirituali.9
Il contributo si articola in tre parti principali: una introduttiva, in cui si evidenziano alcuni elementi che caratterizzano l’eredità del modello Olivetti come impresa integrale; una centrale, in cui si illustrano dei tratti salienti di esperienze imprenditoriali di oggi che si possono
7 Antonio Cocozza, Nuove culture organizzative, aziende innovative e Modello Olivetti, in Michele La Rosa (a cura di), Il “modello” Olivetti: passato, presente, e futuro?, Milano, Franco Angeli 2022, p. 79.
8 Michele La Rosa (a cura di), Il “modello” Olivetti: passato, presente, e futuro?, Milano, Franco Angeli 2022.
9 Giorgio Gosetti e Michele La Rosa, La sociologia del lavoro italiana e l’esperienza olivettiana, in Michele La Rosa (a cura di), Il “modello” Olivetti: passato, presente, e futuro Milano, Franco Angeli 2022, p. 72.
definire olivettiane e che a quella tradizione si richiamano; una conclu-
siva, in cui si evidenzia il ruolo centrale delle “persone integrali” nelle organizzazioni e alcune prospettive di ricerca.
2. L’eredità del modello Olivetti
Alla Olivetti, hanno mosso i primi passi in campo professionale molti
di coloro che poi sono diventati punti di riferimento della sociologia
italiana: Franco Ferrarotti, Luciano Gallino, Federico Butera, solo per
citarne alcuni. E’ lo stesso Butera 10 a spiegare come alla Olivetti, fra
gli anni ‘60 e ‘70 del ‘900, nascano la sociologia dell’organizzazione e il change management in Italia. Il fondatore della disciplina è Luciano Gallino, a capo del Servizio di Ricerche Sociologiche e Studi sull’Organizzazione dell’Olivetti. Nelle sue opere, Gallino spiega con categorie sociologiche l’apparente miracolo di una piccola impresa di provincia che diventa un gigante internazionale con 40.000 dipendenti, formulando la teoria dell’azienda processiva, una scoperta illuminante e tuttora valida per comprendere i fattori interni di sviluppo. Butera – che eredita, nel 1969, la guida del Servizio, nella fase di accompagnamento al passaggio dalla meccanica all’elettronica e alla sostituzione delle catene di montaggio con le “isole di produzione” – aggiunge all’impianto concettuale e analitico della sociologia dell’organizzazione quello del change management strutturale. Il modello Olivetti esiste e rappresenta una eredità fondamentale per diverse imprese del made in Italy aperte alla competizione internazionale.
Nel 1962, questo modello era visibile fisicamente sui due lati di Via Jervis a Ivrea. A sinistra di Via Jervis, vi era il massimo della razionalità organizzativa del tempo, perché in quel determinato spazio si concentravano: gli stabilimenti di produzione, le officine e i montaggi, dove erano stati introdotti e perfezionati i più moderni metodi di fabbricazione e montaggio della produzione meccanica mondiale, con innovazioni importanti rispetto al taylorismo sperimentato nelle of-
ficine meccaniche internazionali (e anche a quelle delle officine Fiat, a soli 40 chilometri di distanza); i laboratori della Ricerca e Sviluppo
10 Federico Butera, La nascita della sociologia dell’organizzazione alla Olivetti: le Scienze dell’Organizzazione in Italia e il loro futuro, «Studi Organizzativi»,2/2016.
che studiavano prodotti innovativi che avevano oltre il 50% di quota di
mercato mondiale, come la Tetractys; gli uffici tecnici, dove venivano sviluppate le soluzioni più evolute di macchine utensili e stampi e, infine, c’erano gli uffici amministrativi, molto efficienti per quel tempo.
Sulla sinistra di Via Jervis, vi era poi una linea ideale che legava fra loro
consociate, filiali, concessionari distribuiti in tutto il mondo. A destra, vi era invece un complemento integrato a tanta razionalità produttiva: i servizi sociali, l’infermeria, la biblioteca, il centro di sociologia, il centro di psicologia e gli altri servizi che davano “anima” all’impresa.12
Questi due mondi dell’universo Olivetti rappresentavano un unico
modello di impresa, fondato su alcuni principi cardine:
forte responsabilità sui risultati; ruoli a geometria variabile e centrati sui
risultati; verifica continua della leadership; strutture mutevoli in base alle
circostanze e alle opportunità; staff di alta qualità; ridondanza intellettuale;
presenza dei dirigenti più alti sul luogo di produzione (il “gemba”, come più
avanti diranno i giapponesi); ossessione per la qualità; sistemi di regolazionsociale raffinati (si pensi alla presenza di un ufficio del personale che prendeva in carico tutti i casi di disagio da qualunque fattore prodotto); relazioni interne efficaci e rispettose; comunità professionali cosmopolite, comunità di
pratica, networking e tanto altro.
Soprattutto si osservava una grande cura delle persone: reclutate per le loro potenzialità, avviate su percorsi in cui le grandi opportunità offerte dall’azien-
da si intrecciavano con l’incoraggiamento a sviluppare il proprio “workplace within”, ossia quel mondo interno di esperienza, cultura e intelligenza patrimonio delle persone.
11 L’Olivetti, pur essendo entrata nel settore del calcolo solo nel 1940, raggiunge rapidamente posizioni di eccellenza. Con la Tetractys, compie un ulteriore passo in avanti: non solo è una macchina scrivente più veloce e affidabile, ma offre una serie di funzionalità molto innovative che nel settore del calcolo meccanico di fascia alta, per alcuni anni, consentono all’Olivetti di trovarsi in una posizione di sostanziale monopolio mondiale, tanto che può permettersi di vendere la Tetractys a un prezzo molto elevato: 485.000 lire, che allora più o meno corrispondevano a 7-8 mesi di stipendio
di un impiegato. Un prezzo giustificato dall’eccellenza qualitativa e funzionale del
prodotto e dal fatto che sul mercato mondiale, in quel momento, non c’erano altre macchine capaci di reggere il confronto. Fonte: https://www.storiaolivetti.it/artico-
lo/125-tetractys-una-calcolatrice-meccanica-senza-riv/.
12 Federico Butera, L’“impresa integrale” come modello per le imprese italiane eccellenti: la lezione Olivetti, «Bollettino ADAPT», 26/2018.
Era una impresa con una struttura organizzativa potente e severa, ma anche con un’anima condivisa, data dai valori dell’impresa, dalla responsabilità so-
ciale, da un network vivissimo. […] Era soprattutto una impresa con una straordinaria capacità di imparare, di cambiare, di innovare.13
In tale combinazione non comune di risorse e capacità di agire effi-
cacemente e con generosità nel contesto può essere compreso e valuta-
to il modello Olivetti e la sua eredità al fare impresa di oggi. Per Butera è l’“impresa integrale” o l’impresa eccellente socialmente capace.14
3. L’impresa integrale
L’impresa integrale è quella che persegue in modo integrato eleva-
te performance economiche e sociali e che agisce concretamente per proteggere e sviluppare l’integrità degli stakeholder e dell’ambiente
fisico, economico e sociale.15 Si tratta di un concetto che consente di andare oltre l’idea basata sulla responsabilità sociale d’impresa, criticata da molti come un concetto segnato da connotazioni moralistiche e idealistiche, che induce quasi a ritenere l’impresa un soggetto dotato di “sentimenti” o “obblighi morali”. Il profilo dell’impresa di cui si parla non è nemmeno quello dell’“impresa illuminata”. Butera descrive invece una impresa “normale”,16 che semplicemente sviluppa in modo eccellente e congiunto valore economico e sociale, attraverso una stra-
tegia e azioni concrete. È un modo di fare impresa che non si consegue adottando un modello statico, ma attraverso un processo dinamico,
volto a definire valori e strategie, per “render conto”, per realizzare le
proprie intenzioni, soprattutto per raggiungere risultati e mettere in
pratica, quotidianamente, un paradigma valoriale condiviso. L’impresa integrale è il risultato di quell’efficace legame di reciprocità fra im-
presa e società. È un’istituzione economica che acquisisce dal contesto socio-economico valori, norme e regole sociali e che restituisce anche conoscenze e cooperazione.
13 Ivi, pp. 2-3.
14 Ibid.
15 Ibid.
16 Ibid.
L’impresa integrale ha alcune caratteristiche chiave. Tra queste, si
evidenzia, in primis, la sua missione fondamentale: quella di produrre
benessere per tutti gli stakeholder. Ovviamente, come già detto, genera ricchezza per sé e per i proprietari, ma attrae investimenti esterni, an-
che di fornitori, clienti, comunità locali e sistemi globali; fertilizza sistemi economici comunitari e territoriali, Pubbliche Amministrazioni, altre imprese e accumula nel tempo un consistente “capitale sociale”.
Tutto ciò rappresenta un fattore di vantaggio competitivo che costru-
isce imprese “fatte per durare”. Infine, è un’impresa che ha definito i propri valori, dichiarando impegni e assumendosi spontaneamente responsabilità riguardanti l’ambiente, la comunità, la clientela, i membri dell’organizzazione e infine misurando la realizzazione di questi impegni. Tutto ciò non come una “aggiunta moralistica”, ma perché è in sintonia con le proprie strategie di affari, di organizzazione, di gestione del personale e dei rapporti esterni.17
Una impresa integrale produce soprattutto persone vere, cresciute e socializzate nella e con l’impresa: manager, professional, tecnici, artigiani, amministrativi e operai, ma anche clienti e fornitori.
Parte dell’inestimabile valore della eredità della Olivetti consiste proprio nelle figure rappresentative che ha collocato all’interno dell’economia italiana e internazionale, cosi come delle Università e dei centri di ricerca.
Il suo sistema di governance, la sua organizzazione interna, la sua cultura di impresa, le relazioni stabili con le istituzioni e le organizzazioni del territorio sono trasparenti e corrette. Uno dei segreti della Olivetti, durante la vita e dopo Adriano Olivetti, fu quella tensione a proteggere e sviluppare sia l’integrità dell’impresa, sia quella del patrimonio ambientale e sociale con cui l’impresa entra in contatto. Qui può essere cercato il modello dell’impresa Olivetti, distinta dai suoi fondatori, «un modello da riproporre non ad irripetibili Adriano Olivetti, ma a ripetibili validi imprenditori, dirigenti, professional di cui è largamente popolata l’economia italiana».18
Alcuni di questi tratti strutturali sono stati in gran parte la ragione del successo dei distretti industriali di piccole e medie imprese
17 Ibid.
18 Ivi, p. 1.
leader nel loro settore, ma si applicano a una più vasta serie di realtà
imprenditoriali. «Sono tratti riproducibili in un grandissimo numero
di imprese vere e normali, la stragrande maggioranza delle quali non
ha imprenditori carismatici e socialmente impegnati, ma imprenditori che costruiscono e guidano imprese integrali. Vi sono molte più imprese integrali in Italia di quanto si pensi».19
4. Esperienze olivettiane
Le parole chiave della visione d’insieme di Adriano Olivetti sono de-
mocrazia, lavoro, cultura, scienza, ideali di giustizia, bellezza. È una visione di impresa, la sua, ma soprattutto è un modello di società. Tra le tante esperienze che possono essere definite olivettiane, perché si rifanno alla sua idea di fondo, ne citiamo due: Loccioni ed Aboca. 20
Siamo tra la Toscana e le Marche, nella “Terza Italia”21 (insieme a
Veneto ed Emilia Romagna).
Sono due imprese animate da una stessa tensione sociale, in cui si realizza una progettualità inclusiva, orientata costantemente alla ricerca e al concorso al bene comune.
Aboca è una healthcare company, leader in Italia nell’ideazione, pro-
duzione e commercializzazione di dispositivi medici di prodotti com-
pletamente naturali.
La Loccioni, invece, si occupa di “misura”, parola chiave molto
amata nell’impresa. Progetta e realizza sistemi di misura e controllo
per migliorare la qualità, la sicurezza e la sostenibilità di processi e
prodotti industriali, rispondendo, in sostanza, al bisogno di realizzare prodotti senza difetti e che non ne abbiano durante il loro funzionamento. I suoi mercati di riferimento sono: mobilità, energia, salute e ambiente.
19 Ivi, pp. 5-6.
20 I contenuti del paragrafo fanno riferimento al lavoro di ricerca sul campo svolto
dall’autrice, presso le due imprese, di cui si dà conto nel saggio: Emanuela Proietti, “La fabbrica era un bene comune”. Esperienze olivettiane: elementi conoscitivi e riflessioni di merito, in Michele La Rosa (a cura di), Il “modello” Olivetti: passato, presente, e futuro?, Milano, Franco Angeli 2022, pp. 135-154.
21 Arnaldo Bagnasco, Tre Italie: la problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, Il Mulino 1977.
Tra passato e futuro, tra storia e innovazione, Aboca e Loccioni sono due imprese in cui il senso di appartenenza è molto solido; la consapevolezza del proprio passato, su cui si fonda la propria identità, è condivisa e forte; la qualità è elemento imprescindibile e l’innovazione il fine quotidiano.
Aboca e Loccioni sono imprese che si muovono tra una tradizione imprenditoriale del passato, fondata su quegli stessi valori che animavano Adriano Olivetti (a cui esplicitamente entrambe si rifanno); una presenza radicata su una forte identità, animata da scelte concrete,
orientate alla valorizzazione delle persone e delle risorse del territorio;
proiettate decisamente verso il futuro, pronte a cogliere le sfide che
giungono dalle nuove frontiere, che siano tecnologiche o geografiche,
di prodotto o di mercato.
La Loccioni è una “impresa famiglia, non familiare”, aperta. Punta a creare e vivere in un clima di benessere, con uno stile basato sul miglio-
ramento continuo (concetto al cuore dell’approccio alla qualità totale).
La strategia per l’innovazione inizia però sempre intorno a un tavolo,
con Enrico Loccioni e pochi collaboratori di volta in volta coinvolti, con carta, matita, molte idee e domande. In queste riunioni creative, si usa-
no linguaggi nuovi e si mettono in simmetria innovazione e responsa-
bilità.22
In Loccioni, si tralasciano alcune classiche categorie come per esempio: welfare aziendale o carriera.
Circa l’80% delle persone che lavorano in Loccioni provengono dalle zone limitrofe, fatto che consente di mantenere salda la rete di rela-
zioni familiari e amicali di supporto, così come di usufruire dei servizi territoriali. Del resto, i servizi del “marciapiede destro” della Olivetti,
oggi sono diritti acquisiti ed erogati dal sistema del welfare pubblico; nonostante questo, talvolta, resta difficile usufruirne in maniera effica-
ce, si pensi agli asili nido, poter lavorare sul proprio territorio facilita l’accesso ad essi e il mantenimento di una rete informale di relazioni.
Restare vuol dire, però, anche alimentare la ricchezza di un territorio,
le cui prime risorse sono le persone che lo abitano.
22 Antonio Cocozza, La governance social inclusive come prospettiva evolutiva delle organizzazioni innovative, Quaderno di «Sviluppo & Organizzazione», 2016.
In Aboca, si preferisce non usare il termine carriera: si ritiene es-
sere quasi una illusione, nel mutevole contesto economico in cui si è immersi, stabilire la collaborazione di una persona nell’impresa a tre,
cinque o dieci anni, in quanto si possono aprire scenari professionali e
opportunità, spesso inattesi e positivi. Fermo restando, che qualsiasi
percorso di crescita non prescinde dalla qualità e dalle prestazioni di chi si è e di chi si può diventare. Non a caso, le domande che si pongo-
no in fase di selezione, in Aboca, sono mirate proprio a rilevare certe caratteristiche in grado di entrare in sintonia con la logica specifica
dell’impresa e con i valori guida sui quali si basa, che sono soprattutto
tre: coerenza, umiltà e lavoro.
In Loccioni, l’impresa diventa territorio e il territorio diventa im-
presa. Infatti, il suo impegno sociale – da sempre integrato nell’operare del gruppo con progetti con le scuole di ogni ordine e grado, con la
promozione delle eccellenze turistiche della zona – ha trovato la sua massima espressione nel progetto “2km di futuro”. È il progetto – fi-
nanziato dalla stessa Loccioni, capofila di una rete di 16 enti del ter-
ritorio –, di messa in sicurezza e riqualificazione del tratto del fiume Esino, al confine con il campus e il parco energetico dell’impresa. È
una vera e propria adozione di un tratto di fiume, di cui l’impresa cura
la manutenzione e che è stato restituito alla cittadinanza. Il progetto ha previsto anche la ristrutturazione dell’unico ponte pedonale per di-
versi chilometri, una nuova pista ciclabile e la progettazione globale del paesaggio circostante. Questo impegno sociale e questi interventi si
sono tradotti in benefici per l’intera comunità che, insieme agli aspetti
pratici di accessibilità, sono serviti a recuperare il valore delle storie e delle tradizioni del fiume. Le sedi della Loccioni sono immerse nel-
la bellezza della natura delle Marche, a partire dagli uffici, quasi tutti open space, comunicanti tra di loro, ampi, dotati di grandissime finestre, da cui si godono i colori delle stagioni delle colline circostanti. Ha anche un bellissimo parco (in cui vivono degli animali), che in speciali
giornate diventa teatro di grandi feste e iniziative culturali aperte ai
collaboratori, alle loro famiglie e, a volte, alla cittadinanza.
Una delle chiavi di lettura per comprendere fino in fondo queste due storie d’impresa è che i luoghi di lavoro possono essere luoghi bel-
li, piacevoli e di crescita. Tra persone, luoghi, natura e tecnologia non c’è separazione, ma continuità. Ed ecco allora la grande attenzione alla transizione ecologica e alla sostenibilità ambientale, che si concretizza non in spot, ma nel farsi carico di un pezzo di territorio, curarlo e renderlo fruibile alla comunità.
La declinazione dell’innovazione è il lavorare tutto e sempre per
progetti, orientati al futuro, con l’autentico spirito della progettualità, non della precarietà. Non solo, Loccioni è capofila di un tessuto imprenditoriale con più di 80 imprese spin off e dunque condivide e anima anche la capacità stessa di fare impresa.
In Aboca, ci sono un ristorante e un allevamento di bovini (con pro-
duzione di carni di qualità, che in un prossimo futuro sarà aperto al pubblico), che riforniscono anche le due mense, con una ristorazione
di qualità, dove il personale è soltanto interno. In Loccioni, l’ospitalità
è un valore, tanto ché sono oltre 9000 le persone che ogni anno visitano
le sue sedi, ad Angeli di Rosora e a Maiolati Spontini; si condivide in tal
modo il forte senso di appartenenza di cui si diceva. Anche Loccioni ha
un ristorante, che dà anche la possibilità di raccogliere della verdura
fresca nei suoi pressi per organizzarsi un pranzo veloce in autonomia.
Il rapporto con il proprio territorio e le sue ricchezze – da curare e
valorizzare, non depredare – è un elemento fondamentale.
È quel concetto di radicamento di cui parlano La Rosa e Gosetti,
quando sottolineano che «secondo la prospettiva di Olivetti l’impresa doveva operare come “agente di sviluppo della comunità locale”, at-
trattore di lavoratori dalle campagne senza sradicarli, da fidelizzare per un lungo tempo». È quell’idea di company town, anche molto criticata per le sue tendenze a trasformarsi in una esperienza totalizzante per i lavoratori, «un’idea di impresa quindi in controtendenza con quella tipica della società industriale, che implica il separarsi della sfera economica dal contesto sociale, in un processo di sradicamento».23
In Loccioni, la leadership è diffusa. Non solo si lavora secondo modelli adhocratici, in cui i gruppi si creano e si ricostruiscono sulla base del problema da affrontare, legato al bisogno di un cliente, o del pro-
getto da sviluppare, ma la stessa capacità di leadership si fonda, inter-
namente ed esternamente, su nuovi valori, che richiamano quelli che Cocozza (2020) definisce coopetition e approccio antropocentrico: una
nuova forma di cooperazione e competizione e un nuovo paradigma
23 Giorgio Gosetti e Michele La Rosa, ivi, p. 61.
che valorizza l’altruismo riscontrabile nell’agire umano. In Loccioni, si
condivide l’idea che nell’impresa basata sulla conoscenza non esistono
dipendenti, ma collaboratori, intraprenditori, persone con la capacità
di sviluppare impresa dentro l’impresa. L’organizzazione è orizzontale
e i rapporti si fondano più sulla fiducia che sulla gerarchia.
Certamente, in ambienti professionali altamente qualificati, in cui
l’innovazione è l’elemento strategico dello sviluppo, non è funzionale gerarchizzare, ma proporre e valorizzare una visione aperta e coope-
rativa di fare impresa, che tiene insieme i tanti aspetti si qui illustrati, cui si aggiunge quello della conoscenza.
A un certo punto della loro storia, Aboca e Loccioni hanno entrambe avvertito anche l’esigenza di creare una casa editrice, grazie alla qua-
le pubblicare contributi che raccontassero e rappresentassero il loro percorso, che fossero di stimolo per proseguirlo. Come fece
Olivetti con le Edizioni di Comunità, che diedero un forte impulso alle
pubblicazioni delle scienze sociali.
Degli altri aspetti significativi della Loccioni sono l’età media dei
suoi dipendenti, che si attesta intorno ai 33 anni, la loro appartenenza a 15 diverse nazionalità e il fatto che la metà di essi è laureata. Nono-
stante la prevalenza della fascia giovane dei suoi lavoratori, l’impresa include tutte le età, perché si riconosce la necessità di creare ponti ge-
nerazionali e valorizzare l’esperienza. È stata sancita nel corso degli anni una alleanza tra generazioni, rappresentata dal “Progetto Silver-zone”: persone over 65 di grande esperienza (molti ex manager di grandi gruppi internazionali) e appassionati del mondo Loccioni, mettono a disposizione il loro sapere per i più giovani. Allo stesso tempo, l’impresa ha un rapporto privilegiato con le scuole, per due motivi: il primo, cui si è fatto cenno, è divulgare l’idea che “bisogna restare”, se si può, nel proprio Paese e nel proprio territorio; l’altro è quello di muoversi in una prospettiva di orientamento e apprendimento permanente, con-
siderando i ragazzi e le ragazze del posto come i loro potenziali futuri lavoratori e lavoratrici. Due principi importanti animano queste relazioni: bisogna pensare alle persone prima dell’età lavorativa e bisogna creare un humus nel quale esse possano crescere. È una intuizione importante, perché non si riduce all’obiettivo di prepararli a entrare in Loccioni, ma ha quello di formare cittadini e cittadine consapevoli della bellezza del proprio territorio e dell’importanza di assumersi parte della responsabilità di tutelarlo e svilupparlo.
In Aboca, è in fase di elaborazione un nuovo modello di organigramma. La metafora scelta è quella della pianta: le radici sono rappresentate dai dirigenti, i tronchi dai manager e i rami e frutti dalle persone dell’impresa. La ricchezza dei frutti dipende dalla qualità delle sue radici.
Le lezioni più interessanti apprese in queste due imprese sono che,
non solo nelle dichiarazioni di principio, ma nella realtà dei fatti, il
posto di lavoro può essere un luogo dove mettere in campo le proprie passioni, dove affrontare sfide e sperimentare la condivisione, finanche luogo di gioia e di gioco. Loccioni ama definirsi “play factory”: un nuovo modo di pensare e comunicare il lavoro che si astrae dalla materialità e dalla fisicità tipica dei posti di lavoro, per divenire espressione di personalità e di capacità di relazionarsi agli altri. È un modo di fare formazione, ma soprattutto impresa, che nasce grazie alla collaborazione con Isao Hosoe, esperto dello studio degli ambienti di lavoro e del loro impatto sui lavoratori (dal design degli arredi al modo di vivere e
percepire il lavoro e lo spazio), con l’idea di incentivare e diffondere la
cultura del “fare creativo”.
5. Persone integrali
Tra i diversi aspetti che possono attirare l’attenzione dell’osservato-
re di queste due esperienze olivettiane di oggi, si possono evidenziare il ruolo delle persone e la qualità delle relazioni, che restano determinanti e fanno la differenza.
Con l’affermarsi della Quarta Rivoluzione Industriale, nel corso dell’ultimo decennio, la tecnologia digitale ha trasformato radicalmente modi, tempi e luoghi delle diverse convivenze, ma al fine di svilupparsi e avere effetti positivi per tutti, «da sola non basta. Innanzitutto, va progettata, consentendo ai suoi stakeholder di partecipare facendo valere i loro bisogni e desideri. Occorre inoltre progettare insieme anche gli altri due pilastri della Quarta Rivoluzione Industriale: l’organizzazione e il lavoro, anch’essi soggetti a profonde innovazioni».24
24 Federico Butera, Le competenze digitali per progettare un nuovo modello di lavoro, «Scuola democratica», 1/2021, p. 193.
Nel quadro di questo dibattito, sono state spesso le competenze ad
avere il ruolo di protagoniste 25 e in particolare quelle digitali.26 Senza
poter approfondire i diversi aspetti che emergono dalle riflessioni su questa complessa e articolata tematica, si vuole qui sottolineare il legame tra l’impresa integrale e il ruolo delle persone integrali (come le definisce lo stesso Butera, riprendendo Maritain).
Un’impresa con le caratteristiche descritte, che diventa quasi un
prisma delle dinamiche economiche, sociali, culturali, istituzionali e politiche che le ruotano intorno, può svilupparsi solo grazie a una comunità di persone che condividono la stessa visione.
Le competenze sono tasselli fondamentali del puzzle, ma sono i ruoli
e le professioni le strutture che le reggono.
Le competenze sono importanti ma non sono un lego, non sono mattoncini da
comporre a volontà e al bisogno. […]
La via maestra non è quella di formare competenze in astratto, ma è quella di costruire dinamicamente ruoli, mestieri e professioni in base alle sfide dei pro-
cessi produttivi e delle esperienze e capacità delle persone e della formazione ricevuta: un percorso di evoluzione congiunta di new jobs e new skills. Le com-
petenze sono un attributo dei ruoli e delle professioni e la loro crescita. […]
Il nuovo modello del lavoro che si profila sarà basato su responsabilità sui
risultati, dovrà essere in grado di controllare processi produttivi e cognitivi
complessi e richiederà competenze tecniche e sociali. Un lavoro che susciti
impegno e passione. Un lavoro fatto di relazioni tra le persone fra loro e con
le tecnologie.
Un lavoro che includa anche il workplace within, ossia il posto di lavoro ‘dentro’
le persone con le loro storie lavorative e personali, ‘dentro’ la loro formazione,
‘dentro’ le loro aspirazioni e potenzialità.27
Butera, allora, evidenzia come i nuovi mestieri e le nuove professioni
del mondo digitale non saranno il risultato di tendenze, ma dovranno
essere progettati con cura e avranno i pregi di diversi modelli di lavoro:
conterranno le caratteristiche di razionalità delle occupazioni industriali che
hanno potenziato nel XX secolo la produttività del lavoro (aggiungendo oggi
ad esse autonomia e responsabilità); le caratteristiche di qualità e bellezza del
25 Cfr. Luciano Benadusi, Le molte interpretazioni del concetto di competenze. Una maionese impazzita o ben assortita?, «Scuola democratica», 1/2019.
26 Maria Concetta Ambra e Fabrizio Pirro, Digitalizzazione e lavoro: nuove sfide per il social investment approach, «La Rivista delle Politiche Sociali», 3/2017. Federico Butera, 2021, ibid.
27 Federico Butera, 2021, pp. 198-199.
lavoro artigiano vecchio e nuovo (aggiungendo ad esso il lavoro in team e la
capacità di fornire servizi di alto valore insieme a tutta l’organizzazione); le caratteristiche di elevata formazione, giurisdizione e responsabilità delle li-
bere professioni (aggiungendo ad esse la cooperazione all’interno delle orga-
nizzazioni). La elevata maestria e abilità tecnica richiesta da questo modello attiva la conoscenza razionale, la pratica corporea, l’immaginazione e la crea-
tività, il dominio dei dati in modo che le persone siano non solo animal laborans, ma homo faber (Supiot, 2020), ossia persone impegnate sul cosa produrre e sul
perché produrre: persone che non possono non esaurirsi nel procedimento,
nell’oggetto o servizio prodotto ma capaci di ‘costruire una vita in comune’
con gli altri lavoratori e con i clienti. Tendere a praticare questo modello crea le condizioni strutturali per creare «persone integrali» come le chiamava Ma-
ritain (2002), ossia persone che siano capaci di vivere la libertà del lavoro e la gioia dell’ozio, che siano fisicamente, psicologicamente, professionalmente, socialmente, eticamente integre e soprattutto che godano di una solida inte-
grità del sé. Questo richiede un progetto integrato formativo e un progetto di sistema produttivo che le tecnologie digitali possono favorire enormemente
ma non possono da sole produrre.28
Difatti, come ricorda Cocozza,29 con Jacques Maritain, Adriano Oli-
vetti condivide la visione di una società autenticamente democratica e spiritualmente ispirata. La sfida oggi è dunque finalizzata a compren-
dere meglio una rivoluzione strutturale e culturale in atto, dagli esiti assolutamente non prevedibili, che coinvolge da una parte gli attori sociali e istituzionali – imprenditori, management aziendale, organizzazioni sindacali dei lavoratori, lavoratori e istituzioni pubbliche – e dall’altra i sociologi e gli scienziati economici e sociali che si propongono di spiegare questi fenomeni emergenti. In questa prospettiva, si tratta di dare vita ad un’alleanza tra attori e studiosi, in modo tale da poter comprendere meglio i fenomeni innovativi che stanno cambiando la logica razionale che guida il ridisegno dei processi lavorativi, la configurazione delle
strutture, l’impiego delle tecnologie e le competenze necessarie per svolgere i
nuovi ruoli lavorativi.30
28 Ibid. Cfr. Jacques Maritain, Umanesimo integrale, Roma, Borla 2002; Alain Supiot, Homo faber: continuità e rotture, in Enzo Mingione (a cura di), Lavoro: la grande trasformazione, Milano, Feltrinelli 2020.
29 Antonio Cocozza, 2022.
30 Ivi, pp. 89-90.
6. Le prospettive per la ricerca.
In conclusione, è utile chiedersi come l’alleanza tra attori e studiosi
possa concretamente svilupparsi.
Proprio a partire dalle sollecitazioni offerte dal modello Olivetti, la sociologia delle organizzazioni potrebbe dare un contributo di studio e di ricerca importante, per comprendere come realizzare percorsi virtuosi di sviluppo, non solo economico, ma anche sociale, in una prospettiva che guarda alle comunità come a un unicum.
Butera suggerisce, sulla scia dei lavori di Chandler e Perrow per
la grande impresa americana,31 di portare avanti un intenso “lavoro
clinico”, ossia di descrizione e interpretazione dei casi di successo;
sviluppando attività di ricerca e la redazione di storie di impresa, in
un’ottica scientifica. Descrizione e interpretazione poi devono essere
orientate all’intervento, ossia alla azione di gestione, progettazione, cambiamento, innovazione delle imprese e dei sistemi di impresa. Pra-
tiche e cultura di management e sistemi di servizi devono essere, come lo fu l’esperienza Olivetti o come lo è l’esperienza Toyota, centrate
sulla visione, sulla anticipazione, sulla comprensione del contesto,
sul proporzionamento dei fini alle risorse: insomma, su un paradigma
centrato sulla visione e sull’architettura dei sistemi complessi, sulla
gestione dei processi di innovazione e cambiamento, sulla leadership
e sulla partecipazione. L’organizzazione è un sistema sofisticato, di cui
occorre conoscere i componenti, le interazioni, i percorsi evolutivi, le problematiche e su cui, soprattutto, occorre intervenire con la progettazione.32
Se gli studiosi dell’organizzazione possono condurre ricerche di alto profilo su commessa dei policy maker – quando essi sollevano problemi e si pongono obiettivi rilevanti33 -, risulta però stimolante e utile progettare anche azioni che partano da quesiti scientifici e che vedano i ricercatori coinvolgere le imprese, con un ruolo particolarmente significativo nel quadro dei cambiamenti in atto e della loro molteplicità
31 Alfred D. Jr. Chandler, Strategia e struttura. Storia della grande impresa americana, Milano, Franco Angeli 1993.
32 Federico Butera, La ricerca-intervento sull’organizzazione. Rivoluzionare modelli e metodi,
«Sviluppo & Organizzazione», 276/2017.
33 Ibid.
nel caso dell’analisi dei fenomeni complessi. È necessario a tal
fine ottenere una disponibilità da parte di queste realtà, non sempre
scontata.
Dal punto di vista metodologico, l’approccio coerente con le premes-
se illustrate è quello della ricerca-intervento. In Italia, esiste una tradi-
zione consolidata, che si è sviluppata dal 1970, in particolare attraversodue percorsi: da una parte, la nascita della sociologia dell’organizza-
zione e della ricerca-intervento proprio in Olivetti, all’Ufficio Studi eRelazioni Sociali, dove venne chiamato dallo stesso Olivetti, Luciano
Gallino, che andò poi a dirigere il Servizio di Ricerche Sociologiche e
Studi sull’Organizzazione (SRSSO), articolazione del precedente ufficio
e questo facente capo direttamente alla Direzione del Personale e dei
Servizi Sociali, che poi fu diretto da Federico Butera. Dall’altra, ci sono
la nascita e lo sviluppo dell’Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi
Organizzativi (prima RSO, poi IRSO), che ha condotto attività di ricerca,
formazione, progettazione organizzativa e consulenza.34
Nei decenni successi, si sono sviluppate diverse indagini in impor-
tanti realtà imprenditoriali italiane e il filo conduttore di questo viag-
gio “di conoscenza” è stato l’idea che il lavoro può salvare il mondo, ossia che la gara contro la prepotenza, le mafie, la burocrazia, il potere, ma anche le macchine può essere vinta. Questo viaggio ha riguardato i modi con cui allontanarsi dai modelli taylor-fordisti di organizzazione e di lavoro, con cui promuovere una professionalizzazione
di tutti che generi innovazione e qualità della vita, con cui sviluppare “imprese
e amministrazioni integrali”, capaci insieme di economicità e socialità.35
Dato che l’organizzazione complessa non è una derivata dei soli
fattori economici, di mercato, di disponibilità di risorse strumentali e umane del Paese, ma ha anche una sua meccanica e una sua determinata essenza, il contributo della disciplina sociologica è utile per studiarla come sistema, analizzando le interazioni fra le componenti interne, il rapporto con l’esterno. Un secondo elemento del contributo dello studioso è l’analisi empirica e qualitativa di un caso – come quello dello studio sull’Olivetti –, che fa delle scienze dell’organizzazione una materia oggettiva. Il terzo elemento da considerare è la progettualità:
34 Ibid.
35 Ivi, p. 90.
la proposta di una “azienda processiva”, derivata dall’analisi empirica,
viene utilizzata come un modello di riferimento. Si tratta di mettere in
campo anche una partecipazione di natura progettuale, che parta dalla modellizzazione di un percorso condiviso fra azienda, sindacato e isti-
tuzioni (soprattutto formative) avente per oggetto la riconfigurazione e il miglioramento dell’organizzazione e del lavoro, con una partecipazione attiva dei lavoratori che valorizzi le loro esperienze, creatività, capacità di risolvere i problemi e le loro visioni positive. Tutto ciò con il proposito di migliorare la produttività, le condizioni di lavoro e, possibilmente, sviluppare insieme nuovi modelli di sistemi socio-tecnici e di lavoro.36
7. Conclusioni
Nel 2022, nel discorso ai partecipanti all’assemblea pubblica di Con-
findustria,37 Papa Francesco si è rivolto agli imprenditori, come protagonisti essenziali della società, della costruzione del bene comune e motore primario di sviluppo e di prosperità.
In questo intervento, il Pontefice riflette sulla presenza nel mercato
di imprenditori “mercenari” e di imprenditori simili al buon pastore
(cfr. Gv 10, 11-18), che soffrono le stesse sofferenze dei loro lavoratori, ma sottolinea come la gente sappia riconoscere i buoni imprenditori – ricordando la morte di Alberto Balocco e come tutta la comunità aziendale e civile fosse addolorata e abbia manifestato stima e riconoscenza –.38 Egli
evidenzia che la Chiesa, fin dagli inizi, ha accolto nel suo seno anche
«mercanti», precursori dei moderni imprenditori e che nella Bibbia e
nei Vangeli si parla spesso di lavoro, di commercio, tanto che ci sono
diverse parabole che narrano di proprietari terrieri, di amministratori
e di perle preziose.
36 Ibid.
37 Discorso del Santo Padre Francesco ai Partecipanti all’Assemblea Pubblica di Confindustria. Aula Paolo VI. Lunedì, 12 settembre 2022. Disponibile da: https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2022/september/documents/20220912-confindustria.html.
38 È interessante notare che nel settembre 2022, Maria Franca Ferrero – vedova di Michele Ferrero – ha ricevuto il premio Gratitudine dalla Fondazione Nuovo Ospedale Alba-Bra, con la motivazione di “aver nutrito le radici affettive del nostro territorio”.
Il Papa sostiene, ancora, che «l’economia cresce e diventa umana quando i denari dei samaritani diventano più numerosi di quelli di Giuda» e richiama la centralità della condivisione. La ricchezza esige la responsabilità: se si posseggono dei beni, si è in dovere di farli fruttare,
di non disperderli, di usarli per il bene comune. Da ciò deriva il bisogno
di un patto fiscale, che sia cuore del patto sociale. Tasse e imposte sono,
nel mondo moderno e nelle democrazie, la modalità per attuare una forma di condivisione, spesso non compresa. Un’altra via di condivisione è la creazione di lavoro – lavoro per tutti -, in particolare per i giovani. Da sempre il lavoro è una forma di comunione di ricchezza, tuttavia, prosegue il Pontefice, il problema del lavoro non può risolversi se resta ancorato nei confini del solo mercato del lavoro: è il modello di ordine sociale che deve essere messo in discussione, riferendosi, in particolare ai problemi della denatalità e del lavoro delle donne.
L’Italia ha una forte vocazione comunitaria e territoriale: il lavoro è stato sem-
pre considerato all’interno di un patto sociale più ampio, dove l’impresa è par-
te integrante della comunità. Il territorio vive dell’impresa e l’impresa trae linfa dalle risorse di prossimità, contribuendo in modo sostanziale al benessere dei luoghi in cui è collocata.
Infine, egli evidenzia come una delle gravi crisi del nostro tempo
sia la perdita di contatto degli imprenditori con il lavoro: crescendo, diventando grandi, la vita trascorre tra uffici, riunioni, viaggi, convegni e non si frequentano più le officine e le fabbriche. «Si dimentica “l’odore” del lavoro».
E su questo pensiero, cita Adriano Olivetti:
un vostro grande collega del secolo scorso, [che] aveva stabilito un limite alla
distanza tra gli stipendi più alti e quelli più bassi, perché sapeva che quando
i salari e gli stipendi sono troppo diversi si perde nella comunità aziendale il
senso di appartenenza a un destino comune. Adriano Olivetti, proseguendo sulla strada tracciata dal padre Camillo, è stato un testimone straordinario di un modo di fare impresa nuovo a quel tempo e anche osteggiato, perché metteva al centro l’idea di condividere tutti – padroni, lavoratori, famiglie, ma anche sistema politico, economico, sociale e studiosi – una visione di sviluppo centrata sulla persona, sulla tutela non solo dei diritti sul lavoro, bensì della qualità della vita nel suo insieme. Questa sfida sembra tuttora aperta.
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