consulente di direzione, giornalista pubblicista, docenza ventennale di Comunicazione d’impresa a Scienze Politiche Università di Firenze, manager alla Olivetti (1961-1989), dove ha diretto la selezione dei quadri, la scuola centrale della formazione commerciale, la Divisione prodotti per ufficio, la Pubblicità di Gruppo

È scomparso Alberto Galardi.
Ci lascia l’ultimo grande architetto olivettiano, progettista del Palazzo Olivetti a Firenze

di G.C. Giovanni Maggio

 

Alberto Galardi, architetto, cosmopolita docente di architettura, è stato con la sua ampia attività progettuale olivettiana in Italia ed all’estero uno dei protagonisti della golden age imprenditoriale e culturale di Adriano Olivetti. Ho capito chi era Alberto Galardi, e quale è stata la rilevanza della sua opera, molto di recente, quest’estate quando sono stato invitato per una lettura su Adriano Olivetti da Fideuram, che ha sede in Firenze appunto al Palazzo Olivetti, opera del Nostro.

Sono rientrato così, dopo più di quarant’anni, nell’edificio che è stata sede dell’area centroccidentale della Olivetti allora da me diretta.

Vi sono rientrato con nostalgia, ma soprattutto con sentimenti di ammirazione e di gratitudine per come l’edificio, dopo decenni di triste abbandono strutturale e di immagine, è stato restituito alla città con il recupero della sua primaria bellezza e con la ripresa del suo vero nome, Palazzo Olivetti.

Il restauro, impegnativo sul piano economico e professionale, ha così riproposto con autorevolezza l’edificio all’attenzione e allo studio della architettura moderna della città di Firenze.

L’edificio rappresenta con forza un’opera che conclude il percorso delle grandi architetture olivettiane.

Architetture progettate, in sintonia con la illuminata committenza di Adriano, in armonia con chi le abiterà e che, per la loro forma perfetta, costituiranno un elemento di educazione alla bellezza.

Churchill nel momento della ricostruzione postbellica lo dirà con queste parole: “noi diamo forma ai nostri edifici che a loro volta ci formano.”

Il palazzo vede la luce nel 1972, un decennio dopo la morte di Adriano e nella sua visione del futuro ne rispetta il mandato, raccoglie la proiezione immaginata di una grande Olivetti, leader mondiale dell’information technology.

Il palazzo è pensato grande per una grande Olivetti. Una Olivetti però, che appena quattro anni dopo la scomparsa di Adriano, inizia ad essere ridimensionata, vedrà castrato il suo futuro per la sciagurata svendita della sua divisione elettronica nel 1964, il primo momento dell’inesorabile declino della Olivetti di Adriano.

L’edificio ebbe una sua fortuna critica con importante risalto nelle riviste di architettura: ne scrissero tra le altre Casabella, The Kentiku di Tokyo, Ottagono, The Architectural Review, L’Architecture d’Aujourd’hui, L’Architettura, Progressive Architecture.

La rivista Architecture Plus di New York citava tre aspetti significativi dell’edificio: “…rappresenta uno sforzo immaginativo nel creare un interno ideale per “Office land-scaping”,  …la costruzione non ha colonne e i suoi piani sono sospesi dal tetto e così sono resi drammaticamente visibili sulle due facciate principali, …in più l’edificio contiene un piccolo (48 cars), ma efficiente parcheggio meccanico.” Il pezzo conclude “the architect Alberto Galardi designed the building like a latter-day Ponte Vecchio…”  (Design Process. Olivetti 1908-1983, pag. 188,189).

L’inaugurazione passò sottotono, scarso il risalto da parte della culturina della città. Il progettista veniva citato, lo ricordo, come l’architetto argentino. A poco a poco il palazzo fu marginalizzato anche nella scarsa considerazione della stessa Olivetti che si muoveva su principi e ispirazioni del nuovo padrone. Infatti, l’edificio fu venduto, insieme al palazzo Olivetti di via Clerici a Milano e la sede della Olivetti americana della quinta strada di New York, alla fine degli anni 70. Per dirla con Hemingway, breve la vita felice del Palazzo Olivetti.

Ora, come dicevamo, il Palazzo Olivetti rivive e merita di essere visitato e studiato. Il suo progetto, in chiaro richiamo alla pianta libera di Le Corbusier, è orientato ad ottenere spazi di lavoro continui, liberi da ingombri strutturali attraverso l’adozione di un gigantesco schema strutturale per cui il palazzo assume una forma di scatola appoggiata alle due torri laterali.

La costruzione, nella sua chiara leggerezza, è appesa al cielo, seppure con i piedi solidamente piantati sulla terra.

Si tratta di un renversement, un rovesciamento del paradigma costruttivo classico che prescrive un solido edificio costruito su solide fondamenta, dal basso verso l’alto. Qui c’è un rovesciamento, un rivoluzionario sovvertimento delle regole costruttive classiche e per questo mi pare costituire la rappresentazione simbolica del pensiero e dell’opera di Adriano Olivetti, personaggio sovversivo egli stesso come da scheda segnaletica della polizia.

L’edificio rappresenta l’ultimo momento dell’architettura olivettiana, l’opera finale della stagione adrianea.

C’è stata infatti una stagione, in Italia, in cui un’azienda, i suoi prodotti, i suoi manager, le sue fabbriche, i suoi uffici, il territorio in cui si insediavano, le sue strutture produttive e distributive, erano portatori di un unico segno riconoscibile, alto, di successo, di cultura comuni.

Era gratificante lavorarci, studiarci, essere ben retribuiti, crescervi dentro professionalmente e civilmente, sentirsi parte di una polis a cui si andava fieri di appartenere, riconosciuti portatori di uno status privilegiato e di uno stile unico e inimitabile.

Architetti famosi, o che lo diventeranno, lavorano per quella azienda, capiscono e sviluppano la committenza illuminata del Principe, si chiamano Banfi, Belgioioso, Peresutti, Rogers, Bernasconi, Cosenza. Figini e Pollini, Gardella, Scarpa. Il giovane architetto Galardi è uno di loro.

Progettano e realizzano gli edifici di quella polis, condividendo il principio ispiratore del Principe: al centro dei progetti la persona, come all’interno della prima fabbrica a vetri, ancora negli anni Trenta, per consentire a chi ci lavora, e che è stato estratto da un destino rurale, di seguire il percorso del sole, lo svolgersi delle stagioni.

Progettano e realizzano asili nido, mense per gli operai, sedi commerciali, luoghi assoluti del pensiero, dell’armonia, della bellezza, oltre che dell’agire e del produrre. L’architetto Galardi progetta a Firenze uno di questi luoghi, realizza la più nuova, più grande filiale dagli spazi aperti per un nuovo modo di lavorare illuminato, corale, solidale, cooperante.

Di questi architetti, e degli intellettuali che lavorano per rendere concreta la utopia illuminata del principe, Geno Pampaloni scrive “Sono membri di un ordine privilegiato, di una squadra pensatoio, di una cittadella con una sigla aristocratica, caratterizzata da un perpetuo moto anticonformistico, un sottile orgoglio pionieristico… una vitalità culturale che ancora appassiona chi ebbe modo di parteciparvi”.

L’architetto Galardi è stato di diritto membro importante di quella polis illuminata ed illuminante. Il palazzo Olivetti lo testimonia con la sua forza di serena bellezza.

Fiesole, 25 Aprile 2025

G.C. Giovanni Maggio

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