di TOMMASO RUSSO
La Olivetti-Renaissance a cui stiamo assistendo non è casuale. Vi hanno concorso ragioni generali e specifiche. Tra le prime c’è la riscoperta di aspetti centrali della visione del mondo e della vita dell’industriale eporediese rappresentati dal nesso Comunità-Stato regionale, da un rapporto mite tra capitale e lavoro, da un modello antropocentrico dei legami sociali. Alle seconde vanno ascritte le numerose iniziative di associazioni quali l’Archivio storico, la Fondazione eponima (col suo bando di concorso per la migliore tesi di laurea), la Olivettiana, il rafforzamento sul mercato delle Edizioni di Comunità ora in una elegante e sobria veste editoriale, il peso che ancora rivestono intellettuali come Luciano Gallino o Paolo Volponi.
La lettura di tre libri, diversi tra loro, conferma questo clima. Si tratta del volume “documentatissimo e appassionato” di Maria Laura Ercolani: Paolo Volponi. La sfida del Novecento. L’industria prima della letteratura (Franco Angeli 2019); di Antonella Tarpino: La memoria imperfetta (Einaudi 2020), un metaviaggio da Ivrea a Torino; il ritorno di un classico della letteratura di ambito olivettiano: Riccardo Musatti, La via del Sud (Edizioni di Comunità 2020) che con il suo interrogativo in copertina: Esiste una questione settentrionale? susciterà non poche polemiche.
Capitale-lavoro, operaio-macchina, Mezzogiorno-democrazia, sono alcune coppie di parole chiavi con cui entrare nei testi citati nei quali si precisa l’orizzonte olivettiano che Tarpino definisce con un aggettivo sostantivato: il Nuovo.
Un vecchio scritto di Romano Alquati sul sistema delle fabbriche di Olivetti (Quaderni Rossi n. 2-3 1962) per contrasto aiuta a comprendere le prime due coppie. L’autore inserisce quel sistema aziendale nel piano autoritario del neocapitalismo che aliena e mercifica la forza lavoro e così facendo rende uguali FIAT e Olivetti. La similitudine ne annulla però le differenze. Con la rivolta di Piazza Statuto a Torino (luglio 1961) gli operai FIAT riuscirono a strappare aumenti salariali. Tarpino sottolinea, invece, che Olivetti era un’impresa che “investiva i profitti in ricerca e tecnologia, garantendo (senza procedure di contrattazione) salari superiori del 20 per cento rispetto alla media nazionale”. La divergenza profonda tra le due imprese consisteva inoltre nel modo in cui si rapportavano alla fabbrica e alla dignità degli operai. Un clima di terrore regnava in FIAT. Si pensi alle oltre 150mila schedature oppure al reparto SR (Servizi e Ricambi) ribattezzato Stella Rossa, anticamera dei licenziamenti per operai iscritti alla FIOM e al PCI. Olivetti invece mirò a costruire il consenso sia per mezzo del welfare aziendale allora pressoché sconosciuto in Italia, sia attraverso il cosiddetto “fordismo dolce”, sia con il passaggio dalla catena di montaggio alle UMI.
Quando per superare la crisi in Olivetti arrivarono l’Avvocato, Mediobanca di Enrico Cuccia e gli americani allora emerse in tutta la sua plasticità il conflitto fra passato e futuro allegorizzato dal contrasto tra il presidente Bruno Visentini e Volponi. Ercolani lo riporta magistralmente. Racconta lo scrittore urbinate: “Sono uscito nel ’71 dall’Olivetti dopo uno scontro duro con il presidente di allora, proprio perché non ritenevo giusto che la fabbrica seguisse certi principi e si organizzasse in un certo modo. A queste mie considerazioni il presidente della Olivetti reagì dicendo: << Ma lei sa che le fabbriche le fanno gli uomini>> cioè le fanno i capitani d’industria. Io dissi: <<Mi dispiace, caro professore, ma io ritengo che le fabbriche le facciano sì gli uomini, ma tutti gli uomini, tutti quelli che lavorano nelle fabbriche in posizioni anche subalterne, tutti insieme>>.
Del resto l’immagine più cara del capitalismo mite è la fabbrica di Pozzuoli. La progettazione e la realizzazione che dovevano coniugarsi con la bellezza del paesaggio circostante sono troppo note per essere richiamate ancora. Vale la pena riportare un episodio poco conosciuto per avere il senso delle culture circostanti e capire i veri avversari di Olivetti. Nel maggio 1955 si accese una dura polemica tra la direzione aziendale e Giuseppe Mosca segretario. FIM-CISL. Oggetto era l’uso pubblico e politico della religione. Il sindacalista, in una lettera, accusava il direttore di non autorizzare per gli operai il cappellano-confessore, né “le Cerimonie religiose”: la processione della Madonna negli spazi aziendali. Mosca concludeva minaccioso: “Pertanto illustre signor direttore, o ella si adegua alla nostra mentalità o la preghiamo di fissare al più presto un posto sul rapido Napoli -Ivrea”.
Le due autrici in molte pagine dei loro lavori sottolineano la visione antropocentrica di Olivetti evidenziandone le qualità dirigenziali e umane. L’una si sofferma sulla specularità memoria-luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza-personaggi-ricordi-emozioni. L’altra indaga, con un maggior risvolto storico-ricostruttivo, il nesso industria – letteratura affrontato da Volponi nel quale si riflette la passione civile dello scrittore che con la sua precisa scelta politica si fece carico di un progetto di cambiamento della fabbrica e della società.
Riccardo Musatti, membro della pépinière olivettiana, arriva a Matera nella prima metà degli anni ’50. Con altri scienziati sociali e con le loro ricerche sul campo intendono comprendere una realtà troppo spesso rappresentata in maniera mitopoietica. Olivetti riteneva che le sorti della democrazia in Italia passassero per il Mezzogiorno donde il suo investimento in uomini, in imprese culturali, in strutture organizzative, in progetti di trasformazioni (il Borgo La Martella). Sembra opportuno però ricordare che la vittoria della Repubblica nel 1946 fu frutto del voto contadino meridionale sul quale non mise radici il progetto mussoliniano di nazionalizzazione delle “masse” che fece presa, invece, nelle cittadine meridionali. A titolo d’esempio: a Potenza e Matera vinse la monarchia; a Irsina, Lavello, Montescaglioso e altri Comuni bracciantili dove erano in corso le lotte per l’occupazione dei demani comunali e feudali trionfò il voto repubblicano.
Nel suo libro Musatti passa in rassegna molti intellettuali meridionali: da Giustino Fortunato a Gaetano Salvemini fino a Carlo Levi e Rocco Scotellaro guardati entrambi con occhio sornione. Nella sua riflessione non mancano alcuni nodi come il rapporto Nord-Sud o la natura della questione meridionale. In ordine al primo egli scrive: “Un secolo di privilegi protezionistici a favore dell’industria settentrionale ha aggravato la naturale difficoltà di una condizione di storico squilibrio culturale e sociale”. In merito al secondo nel mentre rifiuta un progetto di “rinascita autonoma” del mondo contadino, quasi profeticamente afferma che “il problema meridionale per noi è più che un problema nazionale, è un problema europeo e mediterraneo, il problema di un riscatto vasto e complesso delle popolazioni fra Garigliano e Lilibeo”. Una soluzione passa attraverso la diffusione della cultura, dei suoi strumenti di aggregazione.
Di qui l’importanza attribuita ai Centri di Comunità più che all’UNLA (Unione Nazionale per la Lotta contro l’Analfabetismo) e ai Centri di Cultura popolare. I primi “sono strumenti per dare alla comunità la dimensione reale e la possibilità di un’azione democratica completa” e occorre diffonderli.
Senza forzature si può dire, in conclusione, che La Martella rispondeva anche ai seguenti scopi: 1) essere il versante agricolo di Pozzuoli; 2) essere il luogo dove lo spazio per come era stato progettato serviva a superare l’individualismo contadino, a spezzare il loro isolamento, a neutralizzare “la presenza del negativo”; 3) essere un centro collettivo di Comunità in cui il tempo liberato dalla fatica potesse trasformarsi in godimento del bello, in occasione di felicità pubblica per migliorare se stessi e la comunità di appartenenza
29 settembre 2020