Il 15 aprile alla SUPSI di Trevano si terrà una conferenza dedicata all’“imprenditore illuminato”. Ospite la figlia, presidente dell’omonima fondazione, Laura Olivetti che qui abbiamo intervistato.
di Rodolfo Foglieni
Adriano Olivetti era un grande imprenditore, ma sui generis. Concepiva la fabbrica ben altro che un mezzo per produrre utili, chiusa nel proprio mondo meccanicistico, divisa di netto tra padronato e maestranze, indifferente al territorio. La sua visione sociale dell’impresa lo portava a considerarla centro attivo di quell’ambiente di cui condivideva le finalità esistenziali e da cui traeva le risorse per il proprio funzionamento, in un mutuo interscambio, in cui essa doveva fare la sua parte. Razionalmente e umanamente organizzata al suo interno, socialmente disponibile e solidale all’esterno. È morto nel 1960, improvvisamente, lasciandosi indietro 37000 dipendenti, stabilimenti in mezza Italia ed anche all’estero, ed un’organizzazione di vendita che copriva praticamente il mondo intero. Faceva macchine da scrivere, calcolatori ed anche computer, i primi. E senz’altro non c’è nessuno che almeno una volta non abbia visto un prodotto Olivetti: la portatile L22 esposta al MoMA. Poi, di lui ci si dimenticò. Ora, peraltro, lo si vien riscoprendo, e molti ne seguono, come possono, le orme, sulla via d’un’imprenditoria davvero illuminata. La sua, invero, era molto avanzata, più di quell’Impresa Responsabile di cui la Commissione Europea ha tracciato le linee qualche anno fa. Molti giovani leggono i suoi scritti, editi da Edizioni di Comunità, la casa editrice da lui fondata e di recente tornata in famiglia Olivetti e diretta dal giovane nipote, Beniamino de Liguori.
A raccontarcelo, è la dott. Laura Olivetti, l’ultima dei suoi figli, con cui siamo a colloquio e con cui continuiamo l’approfondimento della straordinaria figura paterna.
L’insieme delle provvidenze che l’azienda di suo padre riservò spontaneamente alle proprie maestranze è stato definito lo Stato Sociale Olivetti. Ce ne può parlare brevemente?
Tenendo anche conto che negli Anni Trenta-Cinquanta il Welfare in Italia era pressoché inesistente, la Olivetti costruì asili e colonie di vacanza per i figli dei dipendenti, realizzò un servizio sanitario a disposizione non delle sole loro famiglie, ma pure di chi abitava nel circondario, fece entrare gli psicologi in fabbrica, raccolse una biblioteca notevole, potenziò quella cassa di assistenza interna iniziata da suo padre, organizzò un servizio di trasporto automobilistico, sì che i lavoratori non dovessero sradicarsi dal loro elemento natìo. E per chi non aveva quelle esigenze, realizzò alloggi di tipo razionale. E poi i salari erano di gran lunga superiori a quelli correnti e gli orari di lavoro divennero più corti. Il suo era un approccio esistenziale al mondo del lavoro che andava al di là dei meri tecnicismi e che era frutto della forte influenza di una coppia peculiare di genitori, un padre ebreo ed una madre Valdese, che gli insegnarono ad essere uomo tra gli uomini e per gli uomini
Quali furono i rapporti tra Suo padre ed il fascismo?
All’inizio non cattivi, ma già negli Anni Trenta gli era contrario, tanto che dalla polizia era schedato come “sovversivo”.
Come reagì suo padre all’avvento dell’elettronica?
Sin dall’inizio degli anni ’50, mio padre volse la sua attenzione all’informatica, e s’impegnò nel dominarla. Quando morì, si può dire che a livello di ricerca e di realizzazione di prototipi, l’Olivetti non avesse rivali nel mondo, all’infuori di IBM.
È vero che, egualitario e lato sensu socialista, mirava a dare il controllo delle fabbriche agli operai, in un superamento di capitalismo e di collettivismo?
In parte. Egli propose la creazione di una fondazione titolare dell’impresa, composta da privati, dal Comune di Ivrea, dall’Università di Torino e dai lavoratori. Ma non gli riuscì di far approvare il suo progetto.
Vogliamo adesso parlare di ricerca, sviluppo e cultura?
Per mio padre una vera impresa non doveva fermarsi mai, cercare nuovi metodi, nuovi prodotti, nuove idee. E il personale doveva essere istruito, qualificato. E poi lui teneva molto anche al lato estetico dell’iniziativa, a partire dal prodotto, a proseguire con i negozi, gli stessi stabilimenti, realizzati da architetti di qualità, da lui influenzati, e pure la pubblicità, perché l’impresa, secondo lui, doveva saper distribuire anche bellezza. Mio padre era un lettore accanito, tutto lo interessava, dalle scienze sociali, allora ben poco conosciute in Italia, al costituzionalismo, alla filosofia, all’urbanistica, all’arte, in collegamento pur sempre alla fabbrica, attorno cui ruotavano progetti affidati ad intellettuali appositamente officiati, o che già lavoravano nei vari uffici di Ivrea. Basti pensare che un letterato, Paolo Volponi, era direttore del personale.
Nel suo autoesilio grigionese del 1944-1945, l’ing. Adriano elaborò il ponderoso trattato intitolato “L’ordine politico delle comunità”, federalista e decentratore. Lei ritiene che il modello svizzero abbia potuto influire nelle sue teorizzazioni?
Credo proprio di sì, e non solo per via di quel soggiorno, ma perché lui, per linea materna, una certa svizzerità l’aveva nel sangue.
Come lei ricorda il Suo “Papà”?
Anche se in pubblico, nelle sue funzioni, poteva sembrare freddo e scostante o lo ricordo timido, riservato e sempre sorridente: sì, son le parole giuste, e dicon tutto di lui.
Lei presiede la Fondazione Adriano Olivetti: ce ne vuole illustrare finalità ed attività?
È stata costituita nel 1962, dalla famiglia e da alcuni amici, con lo scopo di tutelare la figura di Adriano Olivetti e di continuarne il messaggio. Siamo in contatto con la comunità di Ivrea e cooperiamo con le imprese locali. Attualmente stiamo seguendo la procedura perché il complesso industriale di Ivrea entri nella World Heritage List dell’UNESCO.
L’appuntamento è alle ore 18.30. Luciano Gallino e Laura Olivetti dialogano con Franco Brevini. Necessaria l’iscrizione:
eventi.incontri@supsi.ch