Incontro con Gae Aulenti
di Mauro Casadio Farolfi
Ho conosciuto Gae Aulenti nel dicembre 2003 a Milano, nel suo studio professionale situato tra il quartiere Isola e la stazione di Porta Garibaldi. Entrare in quello spazio fu come attraversare una soglia sospesa tra ordine e concentrazione: tutto sembrava parlare di lavoro, ma a bassa voce, come se anche i disegni e i plastici avessero imparato a rispettare il silenzio della padrona di casa. In quell’occasione era presente anche la sorella Olga, simile nell’aspetto ma diversa nel temperamento: esuberante, vivace, pronta a riempire i vuoti con parole e gesti, mentre Gae appariva l’opposto, raccolta, quasi schiva, avvolta da un’aura di timida riservatezza. Il suo silenzio non era imbarazzo, bensì un silenzio pieno, denso, quasi meditativo: quello di chi ascolta più di quanto parli, di chi preferisce che le idee maturino dentro prima di lasciarle uscire.
Io ero lì per un motivo preciso: stavo scrivendo un libro su Adriano Olivetti e desideravo intervistarla sul suo colloquio di lavoro con lui, avvenuto pochi anni dopo la laurea al Politecnico di Milano nel 1953. Per Gae, quell’incontro rappresentò il primo incarico professionale in Olivetti, un inizio che avrebbe inciso sulla sua formazione e sul suo percorso. Ricordo che, mentre accennavo alle mie domande, lei rimaneva silenziosa, quasi a misurare le parole che non diceva: si percepiva che il ricordo non era svanito, ma che aveva bisogno di trovare la forma giusta per emergere. Non era una reticenza, ma un rispetto: il rispetto per Olivetti, per l’esperienza, per il significato di quell’inizio.
Purtroppo, proprio in quei giorni, Gae aveva un impegno urgente all’estero legato a un progetto importante e doveva preparare tutta la documentazione necessaria. Non poteva dedicarmi il tempo che avrei sperato, ma mi promise con quella sobrietà ferma che la caratterizzava che mi avrebbe inviato uno scritto. La sorella Olga, con tono deciso e rassicurante, mi garantì che, se Gae aveva fatto quella promessa, l’avrebbe mantenuta: potevo aspettarmi di ricevere un testo prima allo studio e poi anche nella mia casella di posta elettronica.
In quelle due ore trascorse insieme, tra le parole dosate e i silenzi intensi, ebbi l’impressione netta di trovarmi davanti a una persona con straordinarie affinità con Olivetti, non solo sul piano professionale ma anche su quello umano. Era un’affinità fatta di visione, di concretezza, di serietà, di un modo essenziale di concepire il lavoro e la vita. Il suo silenzio, che ad altri poteva sembrare chiusura, io lo percepii come una forma di lucidità: un linguaggio parallelo, capace di comunicare senza alzare la voce.
In quello stesso periodo, Gae Aulenti aveva ricevuto dall’A.S.L. di Imola e dal consorzio Con.Ami l’incarico di progettare il recupero dell’ex ospedale psichiatrico Osservanza, un complesso imponente composto da dodici grandi padiglioni su un’area di undici ettari, oltre alla realizzazione di un nuovo insediamento residenziale. Un compito che ben si adattava a lei: trasformare il silenzio pesante di un luogo segnato dalla sofferenza in uno spazio capace di accogliere nuove vite, nuove funzioni, nuove storie.
Gae Aulenti ricorda Adriano Olivetti
“Ricordo che fu Luciana Nissin, sposata con Franco Momigliano, a presentarmi Adriano Olivetti, loro abitavano a Ivrea e lavoravano per la Olivetti come psicanalista lei ed economista lui. Mi ero appena laureata e mostrai ad Adriano la mia tesi. L’Olivetti in quegli anni era una grande impresa con decine di architetti e designer di fama internazionale e quindi l’approdo alla Olivetti era considerata un successo. L’incontro fu di quelli silenziosi: io ero molto timida e anche lui. Più che leggere la tesi ci guardammo in faccia. Adriano aveva occhi azzurri molto espressivi; si percepiva la sua alta capacità intuitiva, sapeva selezionare l’interlocutore semplicemente guardandolo e ascoltandolo.
Mi propose di impaginare una rivista che s’intitolava “Tecnica e organizzazione”. Accettai con entusiasmo: fu il mio primo lavoro. Negli anni successivi giunsi a progettare le sedi della Olivetti di Parigi e Buenos Aires e collaborai con Giorgio Soavi e Renzo Zorzi per la progettazione di una mostra intitolata Concept and form che fu esposta al Louvre a Parigi e successivamente a Londra, Madrid e Tokio.
Il mio ricordo di Adriano Olivetti è quello di un uomo silenzioso ma con idee molto chiare: sapeva quel che voleva e come ottenerlo. Olivetti credeva molto nel valore aggiunto della cultura per l’impresa, fu una costante per tutto il suo periodo di conduzione dell’azienda. Creò insieme ad altri, ricordo in particolare Giorgio Soavi e Paolo Volponi, una vera comunità di intellettuali, pittori, scrittori, designer e poi architetti, urbanisti che credevano nella cultura ma anche della creatività come valore costante ed essenziale per fare crescere l’impresa, attraverso il coinvolgimento delle competenze delle maestranze a tutti i livelli.
Venivano organizzati in azienda, a scadenza fissa, incontri culturali ai quali c’era una significativa partecipazione, ma quello che era straordinario era la comunità di intellettuali che abitava e lavorava a Ivrea; ci si vedeva la sera e si continuava a parlare creando un dialogo costante fra maestranze, gruppo dirigente industriale e gruppo di intellettuali. Insomma una vera e propria comunità che spaziava dai temi dell’economia a quelli della psicoanalisi e della sociologia. A tal scopo creò anche una rivista che chiamò Comunità che trattava varie tematiche tra cui l’architettura e l’urbanistica.
Olivetti cominciò a interessarsi sin dagli anni trenta di una disciplina allora pionieristica: l’urbanistica. Il suo progetto di riforma della società su basi comunitarie attribuiva una grande importanza alla riorganizzazione del territorio, alla qualità e all’estetica delle costruzioni sia industriali che civili.
L’Olivetti fu sicuramente una grande azienda all’avanguardia in tanti campi, anomala per varie ragioni, anticipatrice di tante realizzazioni anche nel campo produttivo, sociale, culturale ed etico, tema di grande attualità e oggetto di confronto per tante aziende sul mercato italiano ed estero.
Olivetti collaborò per oltre trent’anni con numerosi architetti allo scopo di creare un grande progetto di modernità con più chiavi di lettura, offrendo la possibilità di un “abitare comunitario”, che è sempre stata la sua visione. Visione in cui l’ambiente di lavoro era concepito come un continuum entro il quale l’apparato produttivo era ben inserito nell’urbanistica del territorio.
In sintesi Adriano Olivetti mi è apparso con una carica comunicativa e intuitiva fortissima, di grande rigore intellettuale, utopista e allo stesso tempo riformista, con un’ampia visione e una forte capacità decisionale e di coinvolgimento, ma sempre con grande rispetto per l’individuo.
Bellissimo articolo!
Le parole che descrivono l’incontro di una giovane neolaureata di 26 anni che riceve subito un incarico di lavoro , parlano del modo di agire di un ‘ingegnere umanista’. Rapido nel decidere perchè sa cogliere l’humanitas della persona. E la risposta di Gae Aulenti sarà altrattanto rapida
Sul web si vede la sua prima copertina del 1954 della rivista Tecnica e Organizzazione, che è subito ‘olivettiana’ dove si avverte un’immediata sintonia con la ‘grande azienda anomala’ e dove avrà molte altre occasioni per fare conoscere il suo valore
Pagina di grande valore, da ricordare
Complimenti a Mauro Casadio Farolfi per il suo articolo.
Non ci sono scritti che riguardino Adriano Olivetti che non richiamino tante “connessioni”. Luciana Nissim si sposò nel 1946 con Franco Momigliano, già compagno di Università, che aveva anch’egli conosciuto l’esperienza partigiana.
Nel 1947 raggiunge la specializzazione in pediatria all’Università di Torino; viene assunta alla Olivetti come responsabile dell’asilo nido e nel 1956 in seguito a divergenze del marito con Adriano Olivetti sul tema delle relazioni sindacali, i coniugi Momigliano si trasferiscono a Milano.
Luciana collabora con il Centro milanese di psicoanalisi sotto la supervisione di Cesare Musatti, a cui succederà nel 1986 alla presidenza del Centro. Socia ordinaria e analista didatta della Società psicoanalitica italiana, svolgerà un’attività clinica, di supervisione e di ricerca.
Cesare Musatti, a sua volta ebbe un ruolo rilevante in Olivetti.
Come si può leggere molto più estesamente negli Archivi Olivetti https://www.storiaolivetti.it/articolo/127-il-centro-di-psicologia-olivetti/
all’inizio degli anni ’40, in pieno periodo bellico, il vivo interesse per la psicologia aveva spinto Adriano Olivetti a prendere contatto con alcuni psicologi, con l’obiettivo di promuovere il progresso della psicologia attraverso la pubblicazione di alcuni fondamentali testi di autori stranieri.
Con questo fine nel 1942 Adriano aveva preso contatto con Cesare Musatti, dal 1928 direttore dell’Istituto di psicologia sperimentale presso l’Università di Padova e poi dal 1940 insegnante di filosofia al liceo Parini di Milano. A Musatti, oggi considerato il padre della psicoanalisi italiana, Adriano aveva chiesto di elaborare un programma editoriale di importanti opere psicologiche straniere, di cui avrebbe acquistato in Svizzera i diritti di pubblicazione e avviato le traduzioni (in seguito, le Edizioni di Comunità, fondate da Adriano Olivetti, avrebbero rinunciato a pubblicare queste opere, ma avrebbero ceduto diritti e traduzioni ad altre case editrici).
Adriano era anche convinto che la presenza di psicologi in fabbrica avrebbe potuto contribuire a migliorare sia l’organizzazione e la gestione aziendale, sia le condizioni del lavoro nelle fabbriche. Per questo motivo nella primavera del 1943 propone a Musatti di avviare la costituzione in Olivetti di un Centro di psicologia del lavoro, che non avrebbe dovuto limitarsi a collaborare con gli uffici di selezione e assunzione del personale, ma avrebbe dovuto avere un ruolo molto più ampio in tutte le questioni attinenti l’organizzazione del lavoro e il benessere dei lavoratori.