Olivetti. La crisi del 1964 e la perdita progressiva dei suoi valori fondativi.
Giuseppe Silmo
Un interrogativo aleggia. Come è stato possibile che la Olivetti, una Fabbrica centrata sull’Uomo, sia divenuta una comune impresa capitalistica centrata sul Profitto?
Per rispondere a questa domanda bisogna tornare indietro al 1964 e alla presunta crisi della Olivetti.
L’argomento della crisi del 1964 è poco trattato, sembrando un tabù da cui è meglio stare distanti. Curiosamente alcuni testi non ne parlano affatto, o si limitano a un breve e fugace accenno. Non si affrontano quasi mai le sue ragioni o le sue effettive dimensioni. Pochi autori ne spiegano le ragioni.
Lorenzo Soria rimane ancora oggi l’autore che di quella vicenda dà, con il suo scritto del 1979, Informatica un’occasione perduta, la lettura più lucida e completa, sia qualitativamente sia quantitativamente, ponendola in un contesto più ampio e fornendo dati. Egli, innanzi tutto, colloca la crisi Olivetti nell’ambito della situazione congiunturale italiana; infatti, dopo anni di continua crescita, nel 1962 l’economia italiana inizia a dare segni di stanchezza. Si passa così da un tasso di crescita, che oggi definiremmo cinese, del 7,1% nel 1961, a uno del 6,2% nel 1962, per scendere al 5,5% nel 1963 crollare al 2,7% nel 1964. Questo comporta un brusco calo della domanda e una conseguente contrazione nella vendita dei prodotti Olivetti. La congiuntura negativa non è solo italiana, anche in molti mercati esteri si verifica un brusco calo della domanda. In conseguenza di questo quadro congiunturale negativo, gli utili diminuiscono e l’autofinanziamento è ridotto a zero. La crisi finanziaria della Olivetti non è però causata dalla sola congiuntura, semmai essa l’ha semplicemente aggravata. Le ragioni sono per Soria quelle che più tardi individuerà anche Valerio Ochetto nella biografia su Adriano Olivetti, ossia la Divisione Elettronica e soprattutto la Underwood.[1]
Pier Giorgio Perotto, che di quelle vicende fu testimone diretto, dopo aver richiamato la “crisi pesantissima degli anni 1963 e 1964, coi quali purtroppo si chiudeva per l’Italia il periodo del miracolo economico”, porta l’accento sul risanamento della Underwood e pone “il dubbio che la divisione [elettronica] sarebbe mai potuta arrivare al pareggio. Infatti molti costi della divisione inclusi una parte di quelli di ricerca e sviluppo, venivano attribuiti impropriamente ai centri di costo centrali di Ivrea”.[2] Confermando sostanzialmente l’analisi di Soria.
Tuttavia, è lo stesso Soria che mette in guardia dal privilegiare una causa come preminente rispetto ad altre.[3]
In questo quadro, aggiunge Soria, l’indebitamento del gruppo continua ad aumentare. Quanto fosse l’effettivo ammontare “non è dato sapere […] perché in quel momento le varie forze in campo tendevano a strumentalizzare le cifre, ora minimizzandole, ora gonfiandole”.
Elserino Piol, un altro protagonista di quella stagione, ne Il sogno di un’impresa conferma le affermazioni di Soria facendole sue.
Ottorino Beltrami completa il balletto delle cifre con un elemento interessante: “I soliti creatori di mostri di Ivrea avevano detto che all’azienda mancavano due miliardi di lire e che l’Olivetti sarebbe fallita, anche perché l’elettronica costava troppo; in realtà l’Olivetti avanzava oltre 10 miliardi di crediti per il rimborso dell’IGE”.[4]
Lo stato finanziario della società in quel periodo, al di là delle polemiche sull’effettivo indebitamento, secondo Soria è in ogni caso piuttosto fragile. In questa situazione già critica, il titolo in borsa, in forte diminuzione dal 1962, anche a seguito del crollo generale della borsa italiana, perde rapidamente valore. Passa dalla quotazione di 11.000 lire di fine maggio 1962, alla quotazione minima di 1.535 lire del 31 marzo 1964.
Nerio Nesi, in Banchiere di complemento, parla di speculazioni di Borsa “dalle quali furono gravemente danneggiati molti dipendenti che avevano investito una parte dei loro risparmi nelle azioni della società”.[5]
Il gruppo famigliare degli Olivetti, che controlla la società, detiene il 70% delle azioni ordinarie e il crollo in borsa del titolo riduce drasticamente il loro capitale. Questa situazione, sempre secondo Soria, non permette alla famiglia di sottoscrivere un nuovo aumento di capitale e di far fronte al fabbisogno finanziario della società. Le banche non se la sentono di rischiare, sostenendo le posizioni dei membri della famiglia già indebitati per i passati aumenti di capitale.
Mario Caglieris, uomo di fiducia di quattro presidenti Olivetti, allora giovane dirigente amministrativo, che ha avuto una parte privilegiata di osservatore in questa vicenda, sostiene che: “…quando la famiglia, ma soprattutto il dr. Pero, trovano questo problema da portare avanti, per quanto ho visto e saputo si sono spaventati”.[6]
A questo punto nascono, ricorda Soria, le voci più disparate, tra cui quella di amministrazione controllata e addirittura quella che la Olivetti sarà presto sottoposta a regime fallimentare.
La realtà, come vedremo, non è affatto così drammatica, ma questo è il clima che si è creato intorno alla società di Ivrea.
Non c’è dubbio che l’azienda passi un periodo difficile dovuto anche alla contrazione della domanda; essa comporta misure che, per un’azienda come la Olivetti sempre in continuo sviluppo e portata a guardare al futuro con ottimismo, generano preoccupazione tra le maestranze.
Viene elaborato, nella primavera del 1964, un “Piano biennale per l’attività dell’azienda” che, di fatto, è l’introduzione della riduzione d’orario tramite la cassa integrazione, una novità assoluta per l’Olivetti, tant’è che si ritiene necessario spiegare che cosa essa sia su Notizie di Fabbrica [7]. L’articolo in cui viene presentato il piano[8] spiega che “il programma elaborato dovrà consentire ulteriori sviluppi” e consiste in: “una temporanea riduzione dell’orario di lavoro per 10.000 operai, anche per anticipare l’avvio di nuove linee di produzione; una ridistribuzione e concentrazione di sforzi organizzativi e produttivi nel settore elettronico”.
La cassa integrazione di due giorni la settimana comporta una perdita del 15% del salario e ha una durata di 45 giorni.[9]
Di là dagli artifizi comunicativi, che vengono usati a iosa per nascondere la realtà, c’è materia a sufficienza per suscitare timori e ansie nelle persone coinvolte. È la fine di un mito, per chi pensava (praticamente tutti) che la Olivetti sarebbe rimasta estranea a questo tipo di provvedimenti.
Questa prima cassa integrazione è stata in pratica dimenticata, anzi rimossa dalle menti olivettiane, tanto che alla fine degli anni 1970 quando, con l’arrivo di De Benedetti, l’azienda vi ricorse nuovamente, tutti eravamo convinti che questa fosse la prima volta che veniva applicata in Olivetti. In realtà le casse integrazione della fine degli anni Settanta sono state più limitate nel numero delle persone coinvolte, ma molto più radicali, con zero ore lavorate nella settimana e sono durate molto più a lungo.
Contemporaneamente accade un fatto ancora più grave, l’Olivetti avvia le procedure di licenziamento di 330 operaie addette al reparto saldatura di Borgolombardo [10]. Beltrami chiarisce che esso è dovuto alla necessità di trasferire la produzione da Borgolombardo a Caluso [11]. Egli scrive che queste operaie furono trattate con una liquidazione generosa e Soria aggiunge che alcune furono trasferite a Caluso su base volontaria.[12]
Questo episodio è tuttavia ancor oggi poco conosciuto ed è stato semplicemente ignorato dai più, Borgolombardo è periferico e fuori del circuito della meccanica di Ivrea.
Il Gruppo d’Intervento.
Ad aggravare la situazione e a farla precipitare è l’incapacità della famiglia di eleggere un nuovo presidente al posto di Giuseppe Pero deceduto nel novembre 1963.
Pesa la mancanza di un capo carismatico come Adriano e comunque di “una persona capace di riprendere con fermezza la società, di motivare il personale specie quello dirigente”, come sostiene Aurelio Peccei.[13]
Di fronte alle divisioni interne della famiglia, incapace di darsi una guida riconosciuta da tutte le sue componenti, diventa necessario trovare una soluzione esterna gradita a tutti e che sia in grado di trovare i mezzi finanziari per risolvere la crisi.
La soluzione è individuata in Bruno Visentini, vicepresidente dell’IRI. Mario Caglieris fornisce un chiarimento che potrebbe spiegare il perché della scelta: “era, per quanto ricordo, consulente fiscale della Olivetti, per questo aveva un rapporto con Nesi, che era Vice Direttore Finanziario”. In un testo del 2020 storicamente inattendibile, con palesi errori, infarcito di complotti internazionali e di gossip, Il caso Olivetti (tradotto dall’originale inglese The Mysterious Affair at Olivetti) troviamo, tuttavia, scritte alcune frasi che, provenendo verosimilmente da interviste ad alcuni membri della famiglia, meritano di essere considerate: “Con la morte di Adriano i vecchi attriti si trasformarono in scontro aperto.” Questo a conferma dei forti contrasti familiari”. Poi la frase chiave con la motivazione della scelta di Visentini: “Silvia [sorella di Adriano] pretese che si mettesse fine alle pazzie; e, per farlo, confidava in un vecchio amico: Bruno Visentini, avvocato, industriale e politico”. Confermando in qualche misura quanto già detto da Caglieris, mentre la frase che troviamo subito dopo ci rivela lo stato d’animo dei componenti della famiglia intervistati dall’autrice americana Meryle Secrest: “Era convinta [Silvia] che Visentini non li avrebbe mai traditi. Così, con le migliori delle intenzioni mise la società sulla via del disastro.”[14]
Tuttavia, alla luce del volume pubblicato nell’agosto 2019 da Mediobanca, Mediobanca e il salvataggio Olivetti [15] da cui si evince il ruolo fondamentale e centrale della Banca fin da subito, la scelta di Visentini può aver avuto ragioni più profonde e lontane. Troviamo infatti scritto nella Nota introduttiva di Giampiero Morreale: “Tra lui [Visentini] ed Enrico Cuccia esisteva un franco rapporto di amicizia che consentiva loro di superare scontri anche assai duri in caso di divergenze sul merito e su aspetti tecnici delle operazioni in cui erano coinvolti.” Rapporto che si era creato attraverso gli anni. Infatti, entrambi erano appartenuti all’antifascismo e al Partito d’Azione [16]. A portarci su questa via è il documento n. 1, riportato nella pubblicazione di Mediobanca, relativo al colloquio del 25 gennaio 1964 tra Enrico Cuccia, Silvio Salteri (responsabile del Servizio Crediti di Mediobanca) e Roberto Olivetti, la cui trascrizione suona così: “Olivetti [Roberto] raccomanda anzitutto la massima discrezione sulle trattative avviate a mezzo del Dr. Visentini, di cui i suoi familiari non sono ancora al corrente; ripete più di una volta questa raccomandazione…»”.
Appare quindi, abbastanza evidente, che la scelta non è stata della famiglia ma, verosimilmente, di Mediobanca e del suo Amministratore Delegato, Enrcio Cuccia.
Cuccia, volendo riportare la Olivetti nell’ambito del capitalismo italiano, come un’impresa “normale”, come tutte le altre, sceglie Visentini, che presidierà e accompagnerà l’Azienda nei quattordici anni successivi, fino all’ingresso di De Benedetti.
Visentini contatta subito gli Agnelli, i Pirelli, la Centrale e Imi. In particolare, in Mediobanca, il cosiddetto “salotto buono”[17] attraverso il suo amministratore delegato, Enrico Cuccia, viene tessuta la tela che porta alla costituzione di un “Gruppo d’Intervento” formato da Fiat, Pirelli, Centrale, Imi e Mediobanca che dovrebbe “salvare” l’Olivetti.
Qui vanno riportate alcune osservazioni critiche sollevate posteriormente sul comportamento di Visentini e Cuccia, a incominciare da quanto scritto da Piergiorgio Perotto nel suo P 101: “Non è mai stato del tutto chiaro perché Visentini, […], abbia dato una rappresentazione della situazione finanziaria della Olivetti più critica di quella che era in realtà. Certamente le operazioni dell’elettronica, ma soprattutto l’acquisizione della Underwood, avevano quasi completamente prosciugato le riserve, però la crisi era soprattutto un problema degli azionisti, che si erano fortemente indebitati con le banche, più che dell’azienda. Ma, come scrisse la rivista «Fortune»: “la chiusa comunità finanziaria italiana istintivamente associò famiglia e società”.[18]
Parole totalmente confermate da una Nota Riservata, del 20 dicembre 1976, di Mario Caglieris a Bruno Visentini, in dissenso con un articolo comparso sul Corriere della Sera, ispirato dall’Alta Direzione, cioè da Visentini stesso, in cui scrive che: “Enrico Cuccia confuse la crisi finanziaria della Famiglia, che era un dato reale, con la crisi finanziaria dell’Azienda, che non c’era”.[19]
Le trattative per tessere la tela del salvataggio sono lunghe e complesse.
Proprio durante il loro svolgimento vengono messi i presupposti dei futuri indirizzi strategici della Olivetti.
Mario Caglieris è incaricato dall’Azienda di assicurare, in contraddittorio con il rappresentante di Mediobanca Maranghi, le verifiche patrimoniali e amministrative relative all’accordo per l’ingresso del Gruppo d’Intervento, e svolge il suo compito, che dura quasi due mesi, proprio nell’ufficio di Maranghi.[20]
Caglieris ricorda che alla sua presenza Cuccia riferisce a Maranghi di aver ricevuto una telefonata dal professor Valletta, che gli riferiva di una visita dell’ambasciatore americano con la richiesta di imporre, nell’accordo per l’ingresso del Gruppo d’intervento, la cessione della Divisione Elettronica a una Corporation Americana.
Conversazione ovviamente non riportata nei verbali editi da Mediobanca. Questo infatti è il segreto, a cui Caglieris ha sempre detto essere legato con Cuccia, Maranghi e Agnelli, finché gli altri fossero stati vivi, di cui parlerà solo dopo la morte di Agnelli.
Tuttavia, mancano probabilmente anche altri verbali, perché, come anche scritto nella pubblicazione di Mediobanca, c’è “un vuoto documentale di circa un mese e mezzo, dalla metà di aprile al 1 giugno 1964” [21]. Vuoto proprio a cavallo della firma degli accordi. Perché, viene spiegato nella pubblicazione citata è avvenuta “una sorta di passaggio di testimone tra Mediobanca e IMI alla testa del Gruppo d’intervento” [22]. Conoscenza che, come viene scritto, “rimase circoscritta ai pochi interessati; non giunse al livello di pubblica opinione, né passò poi a quello delle pubblicazioni storiche e memorialistiche”.[23]
Carlo De Benedetti, in sintonia con la testimonianza di Caglieris, durante la commemorazione del centenario della Olivetti al Piccolo Teatro Studio di Milano [24] il 24 ottobre 2009, ha detto: “Il taglio della divisione elettronica dell’Olivetti fu effettuato per chiara volontà degli americani. Una decisione cogestita da Valletta perché la Fiat potesse avere più aiuti oltre al piano Marshall e attuata, con la precisione chirurgica che lo contraddistingueva, da Cuccia”.[25]
Se nei verbali, di questo intervento a gamba tesa, non ve ne è traccia, tuttavia, da essi veniamo a conoscenza dai verbali dei contatti avviati con la General Electric.
Roberto Olivetti cerca inutilmente di evitare la cessione della Divisione Elettronica e Nerio Nesi sollecita senza risultato l’intervento degli enti governativi attraverso Antonio Giolitti, Ministro del Bilancio. Lorenzo Soria così commenta: “A segnare la sorte della Divisione elettronica fu dunque l’ingresso nell’Olivetti del Gruppo d’intervento” e poco dopo annota: “Escluso forse Giolitti […] agli altri ministri il fatto che l’elettronica fosse un ‘problema d’interesse nazionale’ non interessò mai più di tanto”.[26]
Questa nuovo sviluppo porta all’inserimento nell’atto denominato: Accordo Gruppo d’Intervento Azionisti 18-5-1964, riguardante l’impegno del gruppo dei famigliari Olivetti, a vendere le loro azioni al prezzo di 1000 lire, per il ripianamento delle loro posizioni debitorie verso le banche e un prestito alla Olivetti di 20 miliardi di lire [27] della seguente clausola:
“Gli Azionisti Olivetti e i partecipanti al gruppo d’intervento hanno preso atto dell’andamento delle conversazioni in corso tra la Società Olivetti e la General Electric, quale risulta dai memorandum allegati sub c. ed hanno dichiarato concordemente che la sistemazione tecnica e finanziaria del settore elettronico della Olivetti resta elemento di fondamentale importanza per l’integrale e puntuale realizzazione di quanto previsto nel presente accordo”.[28]
L’impegno stesso è quindi subordinato a una condizione precisa, la cessione della Divisione Elettronica alla General Electric.
Questa condizione non è riportata nella pubblicazione di Mediobanca, con la motivazione che pur presente nell’ultima versione del documento, pur pronto per la firma, non era ancora firmato. Il che archivisticamente poteva anche essere corretto al momento della pubblicazione del testo. Ma ora grazie al grande e encomiabile lavoro svolto dall’Archivio di Mediobanca per digitalizzare tutti i documenti, compresi quelli allora non presenti, in quanto allocati altrove, segnatamente in cassaforte, è stato trovato un documento, questo sì firmato da tutti gli Azionisti e dai rappresentanti del Gruppo d’Intervento, che è stato la base necessaria per poter procedere agli altri adempimenti. È il Patto Consortile Azioni Ordinarie ing. C Olivetti S.p.A., con cui, per usare un linguaggio semplice, le azioni della famiglia Olivetti vengono messe a disposizione del Gruppo d’Intervento attraverso il deposito fiduciario di tutte le azioni Olivetti presso un’istituzione di Mediobanca: la Società per Amministrazioni Fiduciarie – SPAFID S.p.a.
Qui si apre un piccolo giallo. Questo Patto, firmato da tutti, si trova presso Mediobanca, mentre dell’Accordo, che ha determinato il resto della storia Olivetti, in Mediobanca c’è solo la copia del testo non firmata.
Prima del lock down (febbraio 2020) e del ritrovamento del Patto Consortile firmato, l’ipotesi avanzata dall’Archivio di Mediobanca era che l’atto firmato dell’Accordo dovkesse trovarsi presso l’IMI dove, come scritto nell’intestazione dell’atto: “Il giorno diciotto maggio 1964 a Milano, presso l’ISTITUTO MOBILIARE ITALIANO – IMI, Piazza S. Fedele 2, alla presenza del professor Visentini…”[29] avrebbe dovuta avvenire la firma.
Senonché Caglieris, presente alla firma, su questo è molto chiaro: “La firma avvenne una mattina negli uffici di Mediobanca, in via Filodrammatici …”. Lo ha scritto in un articolo sulla «Sentinella del Canavese» del 16 marzo 1995, poco dopo la morte di Visentini.[30] Cosa che ha ripetuto nelle testimonianze che mi ha rilasciato [31]. A queste testimonianze si è aggiunta recentemente quella di Maria Luisa Galardi Lizier, firmataria con gli altri rappresentanti della famiglia Olivetti, che su mia richiesta, gentilmente mi ha scritto una lettera nella quale, nel ricordare quel momento come molto spiacevole, conferma che gli accordi vennero firmati a Milano presso Mediobanca in Via Filodrammatici [32], congiuntamente al Patto Consortile, presumibilmente per praticità, essendo stata proprio Mediobanca a preparare il documento.
Caglieris, presente alla firma, ha conservato il disegno della composizione del tavolo fatto da Visentini [33]: su un lato (quello in basso del disegno) tutti i componenti del gruppo famigliare Olivetti e dei rappresentanti dell’azienda: Bruno Visentini (al centro), Gianluigi Gabetti e Mario Caglieris (ai lati) [34] e sull’altro i rappresentanti del Comitato d’Intervento, tra cui spiccano Cuccia, artefice dell’accordo e Giovanni Agnelli al suo fianco.
Alla luce di quanto sopra, Il titolo “Mediobanca e il Salvataggio Olivetti” è fuorviante, sarebbe stato più corretto “I verbali di Maranghi sul salvataggio Olivetti”. A conclusione di questa vicenda Soria scrive: “Secondo Fortune, il gruppo d’intervento aveva pagato le azioni appena 1.000 lire l’una (in Borsa, il 18 maggio [giorno della firma dell’accordo], quotavano 2.028). Una cifra che mi è stata confermata da Roberto Olivetti e da Aurelio Peccei. La linea di credito aperta dal nuovo gruppo fu poi di 20 miliardi di lire ad un tasso d’interesse dell’8%. Fu considerando che di questa somma l’Olivetti ne utilizzò appena un quinto […], e soltanto per un breve periodo […]. Fortune poté commentare così: “Mai salvatori hanno ottenuto così tanto rischiando così poco”.[35]
La pubblicazione di Mediobanca precisa che la cifra utilizzata del credito fu in realtà di 10 miliardi di lire e che l’Azienda “rinunciò agli altri 10 previsti dagli accordi, dei quali non aveva più bisogno”.[36]
Infatti, la situazione economico/finanziaria dell’Azienda non era affatto così drammatica. Soria, infatti, scrive che l’Olivetti “a dispetto di Visentini che nei mesi delle trattative l’aveva descritta come un’azienda malata […] era sana”. A conforto di quest’affermazione Soria scrive: “Basta guardare ai risultati da essa conseguiti già pochi mesi dopo l’ingresso del nuovo gruppo: le vendite erano aumentate dell’8%; la Underwood, con l’esercizio 1964, era tornata in attivo; […] nel 1965 la società tornò a distribuire il dividendo”.[37]
In realtà il Consiglio d’Amministrazione uscente, riunitosi a Ivrea al Teatro Giacosa il 25 maggio 1964 per nominare il nuovo Consiglio con i rappresentanti del Gruppo d’intervento, all’Assemblea degli Azionisti, comunica che: “Nello scorso anno [1963] il fatturato della Società è stato di 122 miliardi, con un incremento dell’8,5% rispetto all’anno precedente”.[38]
Quindi ancora prima che il Gruppo d’intervento entrasse in funzione.
Guardando invece dalla prospettiva dell’utile, la relazione del Consiglio afferma che: “L’esercizio ordinario si è chiuso con un utile di 4.125 milioni (contro i 5.120 del 1962)”. Non esattamente un’azienda in perdita.
La vulgata seconda la quale l’acquisizione della Underwood e il settore elettronico avessero portato la Olivetti al collasso finanziario, raccontata per troppi anni, risulta quindi ridimensionata.
Le ricadute immediate sulla Olivetti.
La perdita della Divisione Elettronica.
Il 31 agosto 1964 si ha l’annuncio dell’accordo con la General Electric. Nasce così la Olivetti General Electric (OGE) alla quale viene conferita la Divisione Elettronica. Nella nuova società la Olivetti mantiene fino al 1968 il 25% del capitale. Una domanda sorge spontanea. Perché solo il 25%?
Soria fa notare che nei giorni precedenti l’accordo sia La Stampa, che doveva essere bene informata, sia il Corriere della Sera scrivono che la Olivetti avrà il 40% della nuova società. A questo punto lo stesso Soria cita Roberto Olivetti, il quale così giustifica al Consiglio di Gestione della Olivetti la partecipazione con solo il 25%: “Una partecipazione superiore da parte della Olivetti, mentre da un lato non avrebbe garantito la possibilità di una maggiore presenza reale nelle decisioni della nuova società avrebbe costretto d’altra parte la Olivetti ad investimenti molto superiori senza riuscire ad ottenere delle contropartite significative”.[39]
Pier Giorgio Perotto riporta invece che Aurelio Peccei espresse una verità più cruda, che evidentemente Roberto non poteva dire al Consiglio di Gestione: “Mantenere il 25% era solo una via per salvare in qualche modo la faccia e nascondere la vera intenzione di sbarazzarsi completamente dell’elettronica”.[40]
Nell’aprile 1968 la Olivetti cede la sua quota del 25% ed esce definitivamente dal settore dei grandi calcolatori.
La rivincita dei “meccanici”.
Mario Caglieris così commenta lo stato d’animo tra le maestranze di Ivrea all’annuncio della cessione della Divisione Elettronica: “Quando in Azienda circola la voce che dovevamo vendere la Divisione Elettronica, devo dire che non c’è stato molto scandalo, perché l’azienda era fatta tutta di meccanici”. E spiega: “È chiaro che prima l’Olivetti era nel boom meccanico, Capellaro ecc. Tutta quest’attività dei grandi calcolatori era nata in modo separato, c’era una forte, più che rivalità, non so come chiamarla, inimicizia, astio, fra i meccanici e gli elettronici, perché provenivano da due mondi diversi. I meccanici avevano da parte loro i successi delle macchine di Capellaro. Quindi giustamente molte volte si citano le rivalità, sì c’erano, ma non c’era da scandalizzarsi, era rivalità logica tra un mondo nuovo che veniva anticipato e le vecchie macchine, che tra l’altro davano un forte utile”. [41]
Basta qui ricordare che la Divisumma 24 viene venduta a 10 volte il costo di produzione e che il “Calcolo meccanico” nel suo complesso rappresenta nel 1960 il 45 % del fatturato. A corollario dell’accoglienza della notizia della dismissione della Divisione Elettronica vanno citate alcune frasi di Soria, quanto mai significative, che spiegano il perché: “La Divisione elettronica in un primo momento rappresentò un settore in cui lavoravano alcuni personaggi fantasiosi, che quasi, invece di lavorare, si divertivano a fare esperimenti”.
Egli continua dicendo che appena sorgono i primi problemi questi personaggi “si trasformarono semplicemente in coloro che sprecavano gli utili che a Ivrea venivano realizzati con le produzioni tradizionali meccaniche”. Soria a questo punto cita Roberto Olivetti, il quale avrebbe sostenuto che “quando la società si trovò in mezzo alle note difficoltà finanziarie ai dirigenti di Ivrea non parve vero di poter scaricare le loro colpe e i loro errori sulle attività e sui responsabili del settore elettronico”.
E termina affermando che: “La Divisione elettronica divenne il capro espiatorio di una classe dirigente che doveva e voleva salvarsi”.[42]
Scrive Pier Giorgio Perotto, testimone oculare, a proposito dei progettisti-inventori di Ivrea nell’ultimo periodo del calcolo meccanico: I progettisti-inventori di Ivrea si erano rimessi di buona lena a sviluppare due nuove famiglie di prodotti, l’una basata su una supercalcolatrice meccanica scrivente, la Logos 27, e una seconda su una contabile pure meccanica […] Ogni dispositivo di queste macchine era un gioiello di genialità e di creatività, e avrebbe certamente fatto ingelosire il matematico inglese Charles Babbage,[43] che, come è noto, nell’Ottocento tentò con i meccanismi realizzabili allora dei modelli di macchine da calcolo a programma, che furono i primi precursori dei moderni calcolatori.
Ma i progettisti-inventori di Ivrea, ricchi di genialità ma poveri di cultura e di conoscenze storiche, non conoscevano questi antecedenti e la loro sfortuna fu di nascere 150 anni dopo Babbage, proprio alle soglie della rivoluzione elettronica. Per essi inoltre la tecnologia meccanica e quella particolare meccanica della lamiera che loro stessi avevano inventato era tutto il loro patrimonio, che gli aveva dato prestigio, potere, benessere, pur se limitato al microcosmo olivettiano della cittadella della tecnologia eretta da Adriano”.[44]
Elserino Piol a proposito della Logos 27 si esprime così: “Olivetti tentò il rilancio del calcolo meccanico con la Logos 27, certamente la più completa e performante macchina da calcolo meccanica mai realizzata al mondo. Onore a Gassino, ma la Logos 27 si rilevò un fiasco, perché per quanto dotata di soluzioni estremamente interessanti sul piano dell’inventiva progettuale, il mercato ora amava l’elettronica”.[45]
In realtà il problema della Logos 27 non è solo di mercato. La Logos 27 rappresenta il massimo della sofisticazione meccanica raggiungibile, ma, proprio per questo, macchina complessa e difficile da produrre, ma anche da assistere.
A questo proposito Perotto testimonia che la Logos 27 non si riesce a mettere “a punto e ad avviare in produzione. Tutta la decennale competenza meccanica della Olivetti era stata mobilitata, ma dalle linee di montaggio i prodotti uscivano a stento”.
Analizzando il ritardo della Olivetti nella riconversione elettronica, Perotto scrive: “Nel calcolo scrivente, malgrado il fallimento della Logos 27, i prodotti meccanici […] dominavano ancora il mercato, soprattutto, assicuravano una redditività da sogno. Attorno a essi l’intera azienda, con i suoi sprechi e i suoi errori, pretendeva di vivere ancora negli anni Sessanta”.
A proposito poi della contabile meccanica, a cui accenna Perotto, scrivono anche Piol e Giorgio Sacerdoti. Piol la chiama 25-M, Sacerdoti Contabile 25, probabilmente entrambi nomi di progetto. Questa contabile, tuttavia, non è stata prodotta nonostante si stessero già attrezzando le linee di montaggio nello stabilimento di Marcianise.[46]
Piol da parte sua commenta così questo progetto: “Gassino si fece veramente la punta al cervello per realizzare una nuova macchina contabile, con la convinzione che la logica meccanica avrebbe potuto emulare l’elettronica a minor costo […], ma la battaglia era persa in partenza”.
Giorgio Sacerdoti di essa scrive: “Aveva un dispositivo di meccanica fine di livello tecnico eccezionale, consistente di microscopiche palline con cui si cercava di riprodurre il principio combinatorio del bit, o segnale elettrico. Era uno sforzo disperato, che testimonia della difficoltà ad accettare un crollo così drastico del valore della meccanica di precisione”.È il concetto del “bit meccanico” di Teresio Gassino, succeduto a Natale Capellaro nella direzione dei progetti Olivetti, ricordato anche da Giovanni de Witt in un suo scritto[47] e da Renzo Bertino, che dipendeva da Gassino, in un sua testimonianza.[48] Entrambi descrivono una contabile a codice binario, dove lo “0” e l’”1” sono determinati dalla presenza o meno di una pallina. Bertino commenta: “Era essere fuori dal tempo”. Macchina per fortuna mai uscita.
Il vulnus nascosto, che porta alla centralità del profitto.
Tuttavia, la conseguenza più grave dell’accordo è quanto non scritto nei verbali o negli accordi, ma inciso nella memoria e nelle intenzioni dei protagonisti del Gruppo d’Intervento e in maniera granitica e duratura in quella di Visentini e di Cuccia con le sue raffinate geometrie societarie.
Il macigno messo al collo dell’Azienda dal Gruppo di Intervento è il blocco del capitale sociale a 60 miliardi di lire, capitalizzazione avvenuta ben due anni prima il 3 ottobre 1962,[49] voluto per mantenere l’Olivetti sotto controllo e impedirgli quella alterità antisistemica di Adriano Olivetti.
Come scrive Paolo Bricco in l’Olivetti dell’Ingegnere: “Ha ibernato gli assetti proprietari e stabilizzato i conti del gruppo di Ivrea”.[50]
Di questo pesantissimo vincolo praticamente non si trova traccia nei vari testi sulla Olivetti, nessuno ne parla, anche perché non si trova scritto da nessuna parte, ma solo nei bilanci aziendali.
Per 14 anni il capitale sociale rimane invariato (60 miliardi nel 1964, 60 nel 1978), in anni di fortissima inflazione e d’aumento dei costi dei fattori produttivi, mentre l’azienda è costretta ad affrontare i fortissimi investimenti per la riconversione, ormai diventata vitale, da industria meccanica a elettronica.
La trasformazione inizia dal 1968 con Roberto Olivetti e poi in maniera sistematica con Ottorino Beltrami nel 1971, e avviene con modalità che sono il frutto di un monito di Camillo ad Adriano: “Non licenziare” [51] che si è incarnato nel DNA aziendale. Un’operazione unica nel suo genere nel mondo industriale internazionale, dove il problema viene risolto delocalizzando gli impianti e attuando licenziamenti. In Olivetti le localizzazioni rimangono dove sono e nessuno viene licenziato, nonostante l’esubero di personale dovuto alle nuove tecnologie.
La soluzione della Olivetti è la massiccia riqualificazione tecnologica del personale, a prezzo dell’investimento di cospicue risorse finanziarie.
Con il 1978, quando anche le macchine per scrivere diventano elettroniche, con la ET 101, la prima macchina per scrivere elettronica al mondo, l’operazione è conclusa.
La sottocapitalizzazione porta a un indebitamento, dovuto agli investimenti, sempre più rilevante, che si cronicizza:
– 1972: indebitamento 68% sul fatturato.
– 1973: indebitamento 60%.
– 1974: indebitamento 56%.
– 1975: 8,6 MLD di perdite – indebitamento 68%.
– 1976: 1 MLD di utile – indebitamento 70%.
Risultato ottenuto con il conferimento dello stabilimento di Offanengo alla M.A.E (Gruppo Olivetti) – plusvalenza 3 MLD
– 1977: 5,3 MLD di utile – indebitamento 67%.
Questa volta il prezzo da pagare per ottenere questo risultato è salatissimo: la vendita dello stabilimento di Glasgow con la produzione della macchina per scrivere portatile elettrica a pallina Lexikon 82 – macchina unica al mondo – all’americana Smith Corona, da cui si ricavano 9,2 MLD.
Il Fatturato consolidato e l’indebitamento finanziario del Gruppo Olivetti (Fonte: Relazioni del Consiglio D’Amministrazione alle Assemblee degli Azionisti)
Proprio la vendita della Lexikon 82 porta con sé il primo vulnus al “mondo Olivetti”. Il “popolo olivettiano” vive la notizia, tenuta quasi nascosta, molto male e intuisce che forse un’era sta finendo. A nulla valgono le rassicurazioni che in ogni caso la Lexikon 82 rimarrà a catalogo, prodotta dalla SCM per l’Olivetti, mentre la SCM ne commercializzerà una versione con suo marchio; quello che risulta chiaro è che un pezzo importante dell’Olivetti, a causa delle sue difficoltà finanziarie, se n’è andato.
L’arrivo di De Benedetti cambia il DNA dell’Azienda
Siamo arrivati al punto dove non ci sono più alternative al fallimento, salvo che Cuccia non estragga dal suo cappello la soluzione. Cosa che accade. Il banchiere individua, insieme a Visentini, in Carlo De Benedetti, un imprenditore e un manager, dotato di capitali, tutte caratteristiche di un manager/investitore di cui l’azienda ha bisogno.
Si arriva così alla primavera del 1978, dove tutto cambia: De Benedetti acquista i diritti inoptati della famiglia Olivetti, al valore nominale 1.000 lire, con i quali sottoscrive 15 miliardi di nuove Azioni e diventa il maggiore azionista, con il 20% del capitale. L’operazione ha effetti immediati sul bilancio del 1978, con una riduzione del 7% dell’indebitamento sul fatturato rispetto all’anno precedente:
– 1978: 2 MLD di utile – indebitamento 935,8 MLD 60% sul fatturato.
Immediatamente avviene una ricapitalizzazione, a cui partecipano i membri del Gruppo d’intervento e alcune banche, che porta il capitale sociale da 60 miliardi a100 miliardi.
Con l’ingresso di De Benedetti il DNA dell’Azienda cambia: da industriale e solidale diventa sempre più finanziario. Le spese di ricerca, che in un primo tempo hanno subito un forte accrescimento, lentamente, ma inesorabilmente si riducono, si acquista sempre di più tecnologia esterna, la ricerca interna porta sempre meno valore aggiunto ai prodotti Olivetti. De Benedetti pensa, infatti, che la tecnologia sia una commodity, che la si possa acquistare ovunque. Si passa così da una conduzione industriale mirata alla produzione a sempre di più all’acquisto di moduli e di prodotti interi.
Un processo dovuto alla ricerca di facili remunerazioni del capitale, non attraverso l’attività industriale, ma attraverso l’attività finanziaria, che sottrae ingenti capitali alla ricerca. La Olivetti sta diventando sempre più un’azienda finanziaria e sempre meno industriale: gli utili non si reinvestono più nell’Azienda, ma in operazioni finanziarie sempre più diversificate. Un episodio che mi è successo personalmente me lo conferma. Una sera portano il tabulato del fatturato giornaliero nel mio ufficio di responsabile commerciale della linea di Accessori Olivetti presso la Baltea di Leinì (Gruppo Olivetti). Non posso credere ai miei occhi: in un giorno abbiamo fatturato più di dieci miliardi di lire. Immediatamente mi rivolgo al direttore amministrativo, che cerca di riprendersi il tabulato senza nessun’intenzione di fornirmi spiegazioni, ma io insisto, e vengo così a sapere che si tratta di un’operazione relativa a Buoni del Tesoro, che il Gruppo Olivetti ha fatto transitare attraverso la Baltea per ragioni di riservatezza e che, per errore, è finita nel mio fatturato.
Allo stesso tempo tutti i responsabili di attività, dai quadri ai dirigenti, vengono spinti al raggiungimento personale dei risultati attraverso piani d’incentivazione mirati agli obiettivi delle loro attività. Idea tesa alla ricerca dell’efficienza e del risultato, che, tuttavia, per come realizzata, porta alla ricerca del risultato immediato a tutti i costi, senza badare se sia a discapito di quello degli altri e a discapito dei risultati a medio lungo termine e senza badare troppo a come sia ottenuto e certificato. “Tutti i cani sullo stesso osso”, diceva un mio capo, un’immagine forte, che rende bene l’idea.
Al centro dell’Azienda non c’è più l’Uomo ma il Profitto.
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[1] L. Soria, Informatica un’occasione perduta, Torino 1979, p. 26.
[2] P. G. Perotto, Programma 101. L’invenzione del personal computer: una storia appassionata mai raccontata, Milano 1995, pp. 7, 9, 12.
[3] L. Soria, Informatica un’occasione perduta, op. cit. p. 31.
[4] O. Beltrami (a cura di: A. de Macchi e G. Maggia), Sul ponte di comando dalla Marina militare alla Olivetti, Milano 2004, p. 139.
[5] N. Nesi, Banchiere di complemento. L’Olivetti, il PSI. La BNL nella storia di un manager al servizio del Paese, Milano 1993, p. 42.
[6] Conversazione dell’autore con Mario Caglieris del 30 marzo 2009, nei locali della Rappresentanza di Fabbrica Olivetti a Palazzo Uffici in Ivrea.
[7] Come funziona la Cassa di Integrazione, in «Notizie di Fabbrica», Anno V, in «Notizie di Fabbrica», Anno V, n. 3, marzo-aprile 1964.
[8] Piano biennale per l’attività dell’azienda, in «Notizie di Fabbrica», Anno V, n. 3, marzo-aprile 1964.
[9] L. Soria, Informatica un’occasione perduta, op. cit. p. 31.
[10] L. Soria, Informatica un’occasione perduta, op. cit.; O. Beltrami (a cura di: A. De Macchi e G. Maggia), Sul ponte di comando dalla Marina militare alla Olivetti, op. cit. p. 32.
[11] O. Beltrami (a cura di: A. De Macchi e G. Maggia), Sul ponte di comando dalla Marina militare alla Olivetti, op. cit. p. 137.
[12] Ibidem
[13] L. Soria, Informatica un’occasione perduta, op. cit. p. 30.
[14] Meryle Secret, Il caso Olivetti, Milano 2020, p. 297.
[15] G. Morreale (a cura di), Mediobanca e il salvataggio Olivetti, Verbali delle riunioni e documenti di lavoro 1964-1966, Filago (BG) 20019.
[16] C. Toria e R. Zorzi (a cura di), Per Bruno Visentini, Venezia 2000, p. 25.
http://www.storiaxxisecolo.it/antifascismo/biografie%20antifascisti61.html
[17] Intervista del 14 settembre 2009 rilasciata da Mario Caglieris al professor Gianmario Verona dell’Università Bocconi, presente l’autore, nei locali della rappresentanza di Fabbrica della Olivetti in Ivrea.
[18] P.G. Perotto, P 101. Quando l’Italia invento il personal computer, Roma/Ivrea 2015, p. 30.
[19] G. Silmo, Olivetti una storia breve, Ivrea 2017, p. 238.
[20] Testimonianza rilasciate all’autore il 13 maggio 2008, confermata il 17 marzo 2009 e il 30 marzo 2009 da Mario Caglieris in Ivrea, nei locali della Rappresentanza di Fabbrica Olivetti a Palazzo Uffici. Testimonianze confermate nell’intervista del 14 settembre 2009 rilasciata al professor Gianmario Verona dell’Università Bocconi.
[21] G. Morreale (a cura di), Mediobanca e il salvataggio Olivetti, Verbali delle riunioni e documenti di lavoro 1964-1966,0p. cit., p. 29.
[22] G. Morreale (a cura di), Mediobanca e il salvataggio Olivetti, Verbali delle riunioni e documenti di lavoro 1964-1966, p. 29.
[23] Ibidem, pp. 29-30.
[24] La commemorazione era intitolata: OLIVETTI: CENTO ANNI DI PASSIONI. Polifonia sull’Impresa.
[25] C. De Benedetti, Olivetti mia fortuna e mia disgrazia, in «La Repubblica», 25/10/2008.
[26] L. Soria, Informatica un’occasione perduta, op. cit. p. 62.
[27] ARCHIVIO STORICO MEDIOBANCA, Accordo del 18 maggio tra Gruppo di intervento e azionisti (MBCA, SADM, SISC, 1/19, 1).
[28] Ibidem
[29] Ibidem
[30] M. Caglieris, L’Olivetti di Visentini Storia dell’azienda tra il 1964 e il 1978, «Sentinella del Canavese», 16 marzo 1995
[31] Testimonianza rilasciate all’autore il 13 maggio 2008, confermata il 17 marzo 2009 e il 30 marzo 2009 da Mario Caglieris in Ivrea, nei locali della Rappresentanza di Fabbrica Olivetti a Palazzo Uffici.
[32] Lettera del 13 maggio 2022 presso l’autore.
[33]Conversazione dell’autore con Mario Caglieris del 30 marzo 2009 e intervista del 14 settembre 2009 rilasciata da Mario Caglieris al professor Gianmario Verona dell’Università Bocconi, presente l’autore, nei locali della rappresentanza di Fabbrica della Olivetti in Ivrea.
[34] Documento dato all’Autore da Mario Caglieris.
[35] L. Soria, Informatica un’occasione perduta, op. cit. p. 45.
[36] G. Morreale (a cura di), Mediobanca e il salvataggio Olivetti, Verbali delle riunioni e documenti di lavoro 1964-1966,0p. cit., p. 31.
[37] L. Soria, Informatica un’occasione perduta, op. cit. pp. 45-46.
[38] Riunita ad Ivrea l’Assemblea degli Azionisti. La relazione del Consiglio, in «Notizie di Fabbrica», Anno V, n. 5, giugno 1964.
[39] Verbale della riunione plenaria del consiglio di gestione dell’Olivetti, Ivrea, 17 settembre 1964, in L. Soria, Informatica un’occasione perduta, op. cit., p. 81.
[40] P. G. Perotto, “Programma 101”, op. cit., p. 27.
[41] Conversazione dell’autore con Mario Caglieris del 30 marzo 2009, a Ivrea, op. cit.
[42] L. Soria, Informatica un’occasione perduta, op. cit. pp. 51-52.
[43] Charles Babbage, agli inizi del 1800, ideò e progettò una macchina calcolatrice che può essere considerata un’antenata dei moderni computer. La macchina analitica era controllata da un meccanismo in grado di leggere due serie di schede perforate. Le schede prese a coppie definivano un’istruzione, in maniera analoga ai moderni elaboratori elettronici (AA. VV., s. v. Babbage, Charles, in l’Enciclopedia, Volume 2, Torino 2003).
[44] P. G. Perotto, Programma 101, op. cit., p. 28-29.
[45] E. Piol, Il sogno di un’impresa, op. cit., p. 77.
[46] La super-contabile meccanica è stata bloccata dall’intervento di Ottorino Beltrami, Amministratore Delegato della Olivetti dal 15 novembre 1971. La decisione sollevò le proteste del progettista Teresio Gassino e di altri manager d’estrazione meccanica. (O. Beltrami, a cura di: A. De Macchi e G. Maggia, Sul ponte di comando dalla Marina militare alla Olivetti, op. cit., pp. 227-228).
[47] G. de Witt, Dalla meccanica all’elettronica: cronaca di una mutazione genetica, Ivrea 1997.
[48] Testimonianza rilasciata all’autore da Renzo Bertino il 17/04/2008, nella sua casa in Ivrea.
[49] G. Monreale, Mediobanca e il Salvataggio Olivetti, op. cit., p. 19.
[50] P. Bricco, L’Olivetti dell’Ingegnere, Bologna 2014, p. 10.
[51] A. Olivetti, Discorsi ai lavoratori. Alle “Spille d’Oro” – 1954, in Città dell’uomo, Torino 2001, p. 90.
Prova commento: ho inserito il link a questo articolo in un mio test d’uso di una “piattaforma social” alternatiava [a Meta/Facebook – Twitter – eccetera] https://mastodon.uno/@luigibertuzzi/108498817721132426
Avevo sempre pensato che il protagonista principale del fallimento dell’Olivetti fosse stato De Benedetti,la Confindustria, la politica e le banche.
La crisi fu promossa dagli USA perché la Olivetti, nonostante il blocco imposto dagli USA, fece un accordo con l’URSS per vendere lo stesso i computer.