Paolo Volponi. Le mosche del capitale di Paolo Volponi.
di Lauro Mattalucci
Encomiabile iniziativa quella intrapresa da Olivettiana di ricordare che nel 2024 ricorreranno i 100 anni della nascita di Paolo Volponi e di volere pubblicare sul proprio sito contributi e testimonianze che valgano a ricordare, oltre alla sua figura di poeta, scrittore e uomo politico, il ruolo molto importante che egli ha avuto in Olivetti. Pur avendo concluso con lui nel 1968 il mio percorso di assunzione (una brevissima chiacchierata in cui volle sapere, oltre agli studi matematici, quali interessi avessi e come valutassi il contesto eporediese nel quale vivevo dalla nascita), non ho poi avuto – ahimè – significative occasioni di sua frequentazione.
Mi sono però venute in mente le polemiche che fecero seguito all’uscita del suo romanzo Le mosche del capitale (1989) e mi sono ricordato che avevo scritto allora a caldo alcune riflessioni. Sono riuscito a scovarle, le ho trascritte e ve le affido, sperando che valgano anche come piccolo omaggio alla sua memoria.
In una intervista rilasciata a Franco Marcoaldi sull’Espresso Volponi dichiara, a proposito dei protagonisti del romanzo:
«Ci possono essere somiglianze con personaggi del potere. Ma non sono loro. Perché altrimenti il romanzo fallisce. Se volevo davvero fare dei ritratti, emulando Thomas Mann, sarei entrato in questi ambienti, in questi uffici, descrivendo di stanza in stanza i dirigenti nella loro potenza e possanza».
L’affermazione di Volponi è manifestamente mendace; ma in un certo senso è anche vera! Dipende da come si guardano le cose. È mendace perché i protagonisti del romanzo sono riconoscibilissimi, proprio nei loro ambienti e nei loro uffici: lo sono per i loro ruolo, i loro comportamenti e a volte finanche per i loro tratti fisiognomici. Chi ha seguito le vicende di Volponi alla Olivetti e poi alla Fondazione Agnelli, sa che la storia di Bruto Saraccini, il protagonista del romanzo, è la ricostruzione quasi fedele della vita professionale di Volponi stesso nella prima metà degli anni ’70. Anche diversi altri personaggi del romanzo sono facilmente riconoscibili perché l’autore vuole che lo siano. Si pensi per tutti al “nasuto” presidente dalla MFM [Olivetti], prof. Nasapeti [Bruno Visentini] o all’ambizioso dott. Lanuti che dopo le dimissioni di Saraccini prende il suo posto come responsabile della Direzione Relazioni Aziendali (qui solo un facile anagramma nasconde il vero cognome, Lunati).
Alcuni vecchi “olivettiani”, dopo l’uscita del testo, si sono indignati. Un uomo intelligente e di grande cultura come Renzo Zorzi si è sentito in dovere di stroncare, sul Sole 24ore, il romanzo parlando di un «atto di avvelenato risentimento maturato e trascinatosi per quasi un ventennio». Si riferisce alla mancata nomina ad Amministratore Delegato, prima promessa e poi non corrisposta a Volponi in favore di Ottorino Beltrami [ribattezzato nel romanzo ing. Sommersi Cocchi, stante il suo passato militare di comandante di sommergibili].
Dunque tutto vero, tutto fedelmente descritto nel libro: perché Volponi si confessa con grande onestà. E se ama presentarsi nel segno di una voluta continuità con la politica industriale di Adriano Olivetti [il mitico Teofrasto del romanzo], non nasconde per nulla le sue debolezze, la sua disposizione a lasciarsi adulare dal potere e dalla carriera. E non nasconde neppure il “risentimento trascinato per quasi un ventennio”, fino a consumare, nella finzione dell’ultima scena del romanzo, la sua “vendetta”: la morte, tragica e grottesca, del prof. Nasapeti.
Se i personaggi del romanzo sono così puntualmente riconoscibili e le vicende narrate ampiamente autobiografiche, perché possiamo ugualmente ritenere veritiere le dichiarazioni di Volponi sull’Espresso?
Occorre dire che i vari personaggi, pur essendo per lo più identificabili, entrano nel libro come metafore di se stessi, come simulacri di un potere che svuota tutto di sostanza, e vive nutrendosi di intrighi, di immagini trafficate, di gusti raffinati platealmente esibiti, di sapienti pubbliche relazioni. Giustamente si è detto che Volponi ha inteso scrivere un romanzo, non un saggio sulle industrie italiane negli anni ’70. Pertanto molti personaggi del romanzo che riconosciamo come protagonisti delle cronache del tempo, vi entrano per come lo scrittore li vede, come simboli tronfi e compiaciuti di un sistema che non ama riflettere sui propri valori e sui propri fini, ma che ama celebrare il proprio successo, e pensarsi meritoriamente “alla ricerca della eccellenza”. In questo svuotamento di realtà e di tensione ideale, i personaggi finiscono per essere maschere da commedia dell’arte che, nella finzione del romanzo, parlano ed agiscono come gli arredi degli uffici, le poltrone, i ficus, i computer. Tutti, nelle stanze del potere economico, agiscono e parlano con la stessa logica, quella dell’esibizione del proprio status, dell’adulazione dei potenti, del calcolo del proprio tornaconto. Così – ci dice l’autore – «si muovono tutti gli amministratori e i manager industriali di successo, fatti di voli e voletti, di ali ed alette … svolazzano e ronzano dappertutto, in bell’inglese, per andare a succhiare e sporcare.» Sono loro le “mosche del capitale”, che tentano di arraffare quanto possono dalla torta del potere.
Ha dunque ragione Asor Rosa quando scrive su Repubblica che il romanzo di Volponi costituisce una grande allegoria, che prende a prestito personaggi e accadimenti della cronaca per fare un discorso sul potere e sulle condizioni dell’individuo di fronte al potere? Non solo il potere economico, ma il Potere tout court, senza specificazioni. Asor Rosa cita addirittura Pareto per sostenere la sua tesi. L’allegoria rappresentata dal romanzo sarebbe allora quella del bisogno compulsivo che il potere ha di autoriprodursi, chiedendo alle persone di omologarsi ed estromettendo i “diversi”. In quest’ottica la vicenda di Saraccini, e quella parallela dell’operaio Tecraso che lavora alla Fiat, sarebbero riconducibili allo stereotipo della inane lotta dell’individuo contro il sistema, allo stesso modo in cui, nel primo romanzo di Volponi, Memoriale, era stata messa in scena la lotta paranoica dell’operaio Albino Saluggia.
No; c’è qualcosa che non convince in questa analisi di Asor Rosa, qualcosa che non spiega innanzi tutto la cifra letteraria ed il tipo di prosa che compone il romanzo e, attraverso essa, il distacco dalle precedenti opere di Volponi. Assai significativa mi pare la ironica corruzione che l’autore fa compiere al linguaggio delle scienze economiche e manageriali (viste come stampelle ideologiche di un sistema capitalistico irriformabile, che persegue ormai uno sviluppo senza fine e senza fini), trasformando i suoi discorsi in insensati sproloqui di incensamento del sistema:
«Ah! Quando capiranno costoro l’appropriata natura, ragione esistenziale, funzione corporale, compiti e doveri, e quando si piegheranno, se non anche convinti, a questa compromissione tanto chiara e ineluttabile: divina e umana storica scientifica politica economica culturale confederale valutaria.»
Altrettanto significative sono le conversazioni che hanno luogo tra gli arredi degli uffici che hanno evidentemente assorbito la logica del potere. Anche loro sproloquiano, specie i ficus, kafkianamente consapevoli della necessità della scala gerarchica e delle regole indotte dagli status aziendali:
«Noi ficus siamo i più importanti qua dentro, i veri collaboratori di donna Fulgenzia [Gianni Agnelli] … È così alta la nostra purezza, la nostra dignità vegetal dirigenziale, la nostra autorità che tutti coloro qui dentro, alla presenza di Fulgenzia, debbono interloquire, proporre o spiegare si rivolgono a noi …»
Non è il potere, in quanto categoria sociologica, il protagonista del romanzo; ma piuttosto l’incapacità del sistema industriale italiano ad aprirsi verso la società e diventare catalizzatore di modernizzazione, dopo il fallimento dell’unico vero tentativo compiuto in tale direzione: il progetto di Adriano Olivetti.
«L’industria italiana – così riflette Sarracini – non pensa a svilupparsi ordinatamente: alla ricerca, al perfezionamento della propria organizzazione, dei propri prodotti, ad un confronto aperto e leale con il mercato, con la cultura industriale, con l’università…. pensa alla propria comodità, nel senso che esclude queste reali ipotesi di ricerca per restare nell’ambito dell’esercizio del comando e basta… E per restare così arretrata, evidentemente, ha bisogno di tenere arretrato l’intero paese…. Io ci ho sempre creduto a queste cose… sono state la giustificazione del mio lavoro, la perdita della mia vita.»
Il romanzo – è bene non dimenticarlo – è dedicato ad “Adriano Olivetti, maestro dell’industria mondiale”. Il suo filo conduttore è il declino del progetto dell’ingegner Adriano e la progressiva omologazione della Olivetti al panorama dell’industria italiana.
Gli olivettiani che, come Renzo Zorzi, criticano ferocemente il romanzo lo fanno negando quanto è avvenuto in azienda, e difendono la tesi di una sostanziale continuità tra la Olivetti di Adriano e quella degli anni ‘70 (a parte, ben inteso, l’essersi l’azienda affrancata da quegli aspetti per i quali la ragion pratica deve, ad un certo punto, liberarsi dai sogni ed espungere le utopie).
Un romanzo come Le mosche del capitale ha più chiavi di lettura, e questo fa parte indubbiamente della sua qualità letteraria. Ma a me, entrato come tecnico in Olivetti nel ’68 (l’ultimo colloquio di assunzione fu con lo stesso Volponi), la chiave di lettura interna alle vicende aziendali, al tramonto di una diversità culturale, pare la chiave più appropriata, quella che meglio spiega quella sorta di furore narrativo che pervade il romanzo, la sua forza dissacratoria, la trasfigurazione comico grottesca dei simboli e delle retoriche del mondo industriale. I personaggi in carne ed ossa che riconosciamo nel testo contano solo parzialmente per l’autore. Egli pare ben conscio che quel declino era già scritto nello sviluppo che aveva connotato il sistema economico e politico italiano; ma è proprio il venir meno del progetto avviato da Adriano Olivetti che gli rende priva di senso, incerta ed ostile la realtà che resta sotto i suoi occhi, anche quando si illude di poter condizionare,
come consulente, le idee di donna Fulgenzia.
Ci sono già all’inizio del romanzo alcune pagine in cui Saraccini, ancora in organico alla MFM, è descritto mentre insegue il groviglio dei suoi pensieri, dei suoi dubbi e delle sue ansie: valuta, incerto, la proposta alla carica di Amministratore Delegato, ed è rapito dalla vista, attraverso le vetrate di Palazzo Uffici, dalla naturale bellezza dell’ora serale e dall’arco delle colline circostanti. Ma all’improvviso è assalito da una macabra visione, come da una metamorfosi oscena che il suo ufficio subisce:
«Il ficus ornamentale è pieno di scimmie che sghignazzano per deriderlo da ogni foglia: laide. Ignude, rosa, a salti, in volo persino tra le tende a scomporre le rotonde pieghe, solenni vestigia dell’autorità; serpenti schifosi gonfiano la moquette; tarantole s’annidano sui fili delle lampade… La scrivania è un deserto che a poco a poco si accende, come la base attrezzata di una invasione astrale. Sempre accanto al potere si cela e sfiata un antro stregonesco.»
L’allucinata visione gli anticipa l’inarrestabile sconfitta di una certa idea di cultura industriale, di possibile equilibrio tra mondo della produzione e società civile, tra efficienza tecnologica e partecipazione dei lavoratori; un’idea che si era ormai corrotta, inquinata dai miasmi sulfurei che emana il potere costituito, un’idea che forse da sempre era destinata a fallire.
A corrompere tale idea è stata anche la selva di egoismi personali in conflitto tra loro. Negli uffici i ficus più importanti subiscono l’invidia dei ficus minori, che tentano di arraffare i privilegi che gli capitano a tiro, vantano i loro meriti, aspirano ad accrescere il loro prestigio, disposti a tutto pur di primeggiare sugli altri. La storia della Direzione Relazioni Aziendali, dopo Volponi, potrebbe essere il soggetto di un altro romanzo denso di faide e lotte intestine da scrivere con la stessa intensità iconoclasta. Ma questa è un’altra storia…
Tornando al romanzo, ci chiediamo cosa ne è, in un siffatto contesto, della classe operaia, quella classe che guardava con sospetto il sogno di Teofrasto [Adriano Olivetti], e che si mostrava refrattaria nei confronti delle proposte di cogestione, bollandole come paternalismo. Quella classe che orgogliosamente dichiarava di voler farsi carico delle “contraddizioni del capitale”, per costruire un nuovo e più giusto ordine sociale: dov’è finita?
A ben vedere la figura più inquietante del romanzo – una sorta di alter ego di Saraccini, segnata però da una ben più tragica vicenda esistenziale – è l’operaio Tecraso.
Tecraso è l’anagramma di Socrate. Ed è vero che anche lui, militante sindacale alla Fiat (“la grande fabbrica di carne in scatola”) è, come il filosofo greco, impegnato a conoscere se stesso. Ma la ricerca non lo porta alla “coscienza di classe”; anzi gli fa compere il percorso inverso, fino allo smarrimento della propria identità. Si smarrisce non già nell’attività di fiancheggiamento terroristico (cosa per cui viene ingiustamente accusato e messo in galera), ma nella contemplazione del senso di vuoto e di estraneità che sale dalla sua fabbrica sempre più robotizzata, e sale dalla sua città sempre più degradata.
È nella figura di Tecraso che si riassume con più forza il fallimento di quel progetto di democrazia industriale che aveva ispirato Teofrasto, ma anche il fallimento delle speranze alimentate dalle lotte sindacali del ‘68. Anche questo è un ciclo che si doveva chiudere e che la “marcia dei quarantamila” ha definitivamente sepolto. Una marcia simbolo mirabilmente descritta nel romanzo:
«Quarantamila capi silenziosi e disciplinati, ben pettinati e calzati, precisi e disinvolti sugli ombrelli e sui soprabiti ripiegati sul braccio… La polizia e i carabinieri guardano ai lati, fieri e paterni verso un corteo di civile protesta. Il traffico si spegne ai bordi, silenzioso e ordinato, senza impazienza. I colombi della città si sono allineati sui cornicioni senza azzuffarsi, disponendosi a un tiepido lungo meriggio, confortati da dolci briciole delle pasticcerie del centro.»
Cosa verrà dopo? Sta, credo, nell’imbarazzo di questa domanda che emerge tra le immagini inquietanti di un mondo vuoto e senz’anima, l’attualità e la provocazione del romanzo di Volponi.
Ivrea, novembre 1989