direttore dei Centri Comunitari di San Giovanni in Fiore e di Napoli Secondigliano; in Olivetti si è occupato di gestione e di formazione del personale; dirigente della formazione quadri e dirigenti delle Cooperative di Consumatori aderenti alla Lega Nazionale delle Cooperative; direttore delpersonale e dell’organizzazione di CISA spa; Vice Direttore Generale di SITE spa; Direttore Generale di META spa e della Fondazione Aldini Valeriani.

Introduzione di Paolo Rebaudengo

Di comunità, comunitario, comunitarismo si parla spesso in questi ultimi tempi caratterizzati dalla pandemia e dalla necessità di individuare parametri economici e sociali diversi da quelli che hanno dominato, sia pure con modalità diverse, le politiche economiche europee e americane. Politiche che hanno privilegiato il mercato, la competitività, la libera concorrenza a discapito del lavoro, della redistribuzione dei redditi, dell’intervento pubblico. Oggi anche i cantori del liberismo in campo economico sembrano essersi convertiti a politiche pubbliche che diano spazi maggiori alla scuola, alla ricerca, all’ambiente, alla maggior tutela del lavoro e all’attenzione ai territori e alle “comunità”. Non mancano coloro che citano il “modello Olivetti”, qualcuno come “strada da riscoprire e seguire”, altri come “modello superato”. Ma cosa si intenda per “modello Olivetti” resta per lo più piuttosto vago. Può pertanto essere utile rileggere o leggere per la prima volta lo scritto “Comunità e democrazia nel pensiero politico di Adriano Olivetti” di Franco Ferrarotti, sociologo che affiancò Adriano Olivetti ed è oggi uno dei pochi suoi collaboratori viventi, in grado di darci una “interpretazione autentica” del suo pensiero.

p.r.

16 agosto 2020

Comunità e democrazia nel pensiero politico di Adriano Olivetti.

Franco Ferrarotti

1. La misura comunitaria.

Parlare del pensiero politico di Adriano Olivetti è per me doppiamente arduo. In primo luogo, è impresa ardua per la obiettiva ricchezza e complessità di quel pensiero e, secondariamente, ma è probabilmente la ragione determinante, perché quel pensiero è ancora, per me e per molti amici comunitari, ancora troppo caldo, troppo vitale, ancora troppo da vicino ci riguarda e guida i nostri destini per poterne discorrere con distaccata accuratezza. Quello che cercherò di dire qui di seguito sia dunque considerato come niente più che una serie di primi appunti intorno a un tema cui bisognerà a suo tempo dedicarsi a fondo e con umiltà.

In che senso è possibile e legittimo, parlando di Adriano Olivetti, distinguerne il pensiero propriamente politico? Come altrove ho osservato, un pensiero così poliedrico come quello di Adriano Olivetti, nel quale convergono e si fondono esperienze e filoni di varia provenienza, non lo si può tagliare a compartimenti stagni, a seconda dei settori di attività nei quali è apparso impegnato. Una siffatta semplificazione potrebbe giustificarsi solo come espediente metodologico per aiutare l’analisi, ma non consentirebbe una vera e propria comprensione.

Essenzialmente unitario nella sua ispirazione di base, ma apparentemente frammentario nelle sue manifestazioni occasionali, come risulta evidente anche dall’ultima opera di Adriano Olivetti (cfr. Città dell’uomo, Edizioni di Comunità, Milano 1960), il pensiero olivettiano tende per sua natura a nascondersi o a prendersi gioco di uno sguardo frettoloso e inconsapevole. Al limite, allorché il commentatore è particolarmente provveduto, il pensiero olivettiano può ancora celarsi dietro una crosta pittoresca, ma sostanzialmente decettiva di estroso eclettismo.

Si tratta in realtà di un pensiero straordinariamente coerente in ogni suo sviluppo. Se mi sembra legittimo distinguerne l’aspetto politico in senso proprio, ossia in quanto concerne i rapporti fra le persone, e fra queste e le istituzioni, e si applica alla elaborazione di una tecnica della convivenza civile, ciò è dovuto alla mia convinzione che al centro del pensiero olivettiano, quasi come suo nucleo motore, vi sia una intuizione essenzialmente politica: l’intuizione della comunità e dei suoi compiti, rispetto al nostro tempo; la comprensione del significato ultimo dello sviluppo della comunità in una società industriale, o semplicemente post-contadina, tendenzialmente alienata; la capacità di intendere i molteplici problemi (di adattamento, di mediazione, di integrazione) posti dal rapporto fra gruppo e storia, fra gruppi primari, o comunità naturali, e istituzioni codificate, fra Società e Stato.

Sono subito evidenti i pregiudizi e le diffidenze contro i quali un pensiero politico che faccia perno sul concetto di «comunità» viene necessariamente a scontrarsi. Tutta la cultura politica moderna ha origine e cresce nel clima mentale storicistico che svaluta per principio i valori «comunitari» mentre attribuisce alla storia poteri organizzativi autonomi, impersonali e necessitanti, intrinsecamente razionali, per cui l’importante è lasciare via libera allo sviluppo, il meglio viene a coincidere con il nuovo o anche solo con il diverso, andare avanti significa automaticamente «andare bene». E logico che, da siffatto punto di vista, l’intuizione olivettiana che scorge nella «comunità concreta» un «nuovo fondamento atto a ricomporre l’unità dell’uomo», gettando un ponte fra lo Stato leviatanico e l’individuo puntiforme, atomistico delle dottrine politiche ottocentesche, appaia al più come la nostalgia romantica di un sognatore misticheggiante.

Tale semplicistica liquidazione può inoltre invocare almeno una attenuante. E vero infatti che il concetto di «comunità» ha ricevuto dal suo primo teorizzatore, il Tönnies, un alone romantico, che ne ha arricchito forse la suggestività a spese del rigore. In Gemeinschaft und Gesellschaft il Tönnies chiariva il concetto di «comunità» contrapponendolo a quello di «società», dando pertanto luogo a una insanabile dicotomia, che sarebbe difficile difendere dall’accusa di arcaismo sentimentale e decadente. I rapporti sociali positivi, secondo Tönnies danno luogo ai gruppi, i quali a loro volta, in quanto esseri o «oggetti che agiscono in maniera omogenea», costituiscono delle loro associazioni.

«Il rapporto stesso -afferma il Tönnies – e quindi l’associazione, può essere compreso sia come vita reale e organica, ed è in questo caso l’essenza della comunità, sia come una rappresentazione virtuale e meccanica, ed è in questo caso il concetto di società». Comunità e Società indicano pertanto, stando al Tönnies, due modi di vita, e due tipi di rapporti sociali, che stanno in contrapposizione reciproca. Scrive il Tönnies: «Tutto ciò che è fiducioso, intimo, vivente esclusivamente insieme, è compreso come la vita in comunità. La società é pubblico: essa è il mondo; ci si trova al contrario in comunità con i propri cari fin dalla nascita, legati a essi sia nel bene che nel male. Si entra nella società come in terra straniera».

Sarebbero sufficienti queste ultime affermazioni per illustrare la distanza che intercorre fra la concezione della comunità, non ancora libera da rievocazioni idilliache, propria del Tönnies, che può certamente infastidire lo studioso di formazione storicistica o illuministica, e la concezione della comunità in Adriano Olivetti. Con Olivetti usciamo consapevolmente dalle contrapposizioni romantiche. La comunità di cui parla Olivetti viene, anzi, a porsi come la «nuova misura», il punto di suprema convergenza, in cui si ritrovano, e riacquistano, insieme con la reciproca garanzia, la propria funzione e il proprio significato la persona e lo Stato, l’efficienza amministrativa e la tensione ideologico-politica, il passato storico e l’ambiente socio-fisico, in una parola: la dimensione giusta fra il municipalismo sezionale deteriore e tendenzialmente qualunquistico e la grande babele della metropoli odierna.

Nelle parole di Olivetti: «La nostra Comunità dovrà essere concreta, visibile, tangibile, una Comunità né troppo grande né troppo piccola, territorialmente definita, dotata di vasti poteri, che dia a tutte le attività quell’indispensabile coordinamento, quell’efficienza, quel rispetto della personalità umana, della cultura e dell’arte che la civiltà dell’uomo ha realizzato nei suoi luoghi migliori. Una comunità troppo piccola è incapace di permettere uno sviluppo sufficiente dell’uomo e della comunità stessa; all’opposto, le grandi metropoli nelle forme concentrate e monopolistiche atomizzano l’uomo e lo depersonalizzano: fra le due si trova l’optimum». Con estrema lucidità, Olivetti dimostra che non si dà democrazia senza quella base di esperienza umana effettiva, che è possibile alimentare e conservare solo a livello della comunità naturale. Liquidati i rapporti primari, che formano il tessuto di base di qualsiasi società civile, la graduale burocratizzazione dei rapporti sociali e infine la alienazione della società rispetto alle sue istituzioni e a quel suo fondamentale strumento che è lo Stato diventano uno sbocco inevitabile. La via è allora aperta al dogmatismo totalitario. Per questo Olivetti diffida dell’attivismo dei neo-machiavellici odierni; per questo egli torna con insistenza a discorrere dei fini e dei mezzi d’azione, operando tutta una serie di distinzioni e di particolari modalità, che faranno di lui non solo il riformatore, ma anche il teorico delle riforme.

Allorché Rousseau afferma che «l’uomo è nato libero, ma è dovunque in catene», Olivetti può dirsi d’accordo, ma con una importante, fondamentale riserva.

Egli è ben consapevole infatti che la formula rousseauiana costituirà la giustificazione del razionalismo politico dogmatico di una borghesia in ascesa, impaziente e avida. In nome degli «immortali principi» si procederà alla liquidazione indiscriminata del passato, tentando di sradicare credenze e costumi tradizionali, presentati come «idiotismo della vita rurale», in vista della totale liberazione dell’individuo. Olivetti in più d’un luogo dei suoi scritti dimostra di scorgere con chiarezza l’insufficienza di tale impostazione: l’uomo nasce libero, ma non nel deserto; nasce come membro di un gruppo, legato a un determinato territorio, alle prese con un determinato ambiente, immerso in una determinata matrice storico-culturale.

La libertà non vive nel vuoto. Ha bisogno di un suo spazio per incarnarsi. In quanto la inserisce in un contesto di rapporti primari spontanei, la comunità naturale è il locus originario della libertà. La libertà non è più concetto astratto, puro termine concettuale di uno schema dialettico, ma diventa: a) liberazione delle forze della natura e dell’ambiente sociale, limitate e limitanti; b) facoltà di fare, ossia iniziativa dinamica e consapevole; c) controllo degli interessi e delle tendenze puramente sezionali e quindi contraddittorie, per definizione anti-comunitarie. In altri termini, la comunità garantisce lo spazio di base autonomo nel quale la libertà può concretamente articolarsi in iniziativa innovatrice e nello stesso tempo preserva quei rapporti interindividuali diretti (ossia non mediati burocraticamente), che costituiscono la base di esperienza umana concreta indispensabile per qualsiasi ordine civile.

Per i devoti del dogma laico della dialettica astratta, siano essi hegeliani di destra o di sinistra, è chiaro che tutto questo sa di utopia. E ormai tempo, a mio giudizio, di rendere giustizia al realismo di Olivetti, per il quale il tentativo di riscoprire la «comunità naturale» attraverso una «riduzione ai principi» degna del grande Machiavelli per genialità e coraggio intellettuale, non si è mai ridotto a un invito all’idillio. Egli sa benissimo che «la nuova comunità, imperniata sulla libertà dell’uomo, sull’autonomia della persona, sulla dignità della vita umana, presuppone un mondo liberato dall’asservimento, dalla forza, dallo strapotere del denaro». Olivetti sa bene che la lotta di classe esiste, che è perfettamente inutile esorcizzarla con discorsi moralistici e diluirla con i sotterfugi del gergo sociologico.

Ma ha anche capito appieno, quasi con la satura pienezza di un’esperienza vissuta, i limiti del riformismo della tradizione marxistica, la presunzione tragica del socialismo detto «scientifico». Olivetti ha capito che non basta volere e lottare per le riforme sociali, che è anche preliminarmente necessario conoscere e applicare correttamente la tecnica delle riforme. Sulla scorta dell’esperienza jugoslava e attraverso l’interpretazione critica dei fatti sanguinosi d’Ungheria e della crisi polacca, Olivetti ha dimostrato come le riforme sociali sono di per sé insufficienti, nel senso che non basta predicarle o attuarle purchessia. La loro validità va garantita anche dal ‘punto di vista organizzativo e metodologico.

Ciò che allo storicista assoluto, hegeliano o marxista poco importa, appare come elemento utopistico o reazionario («mettere le brache al mondo»!), in quanto è la storia che s’incarica di risolvere automaticamente i problemi del futuro assetto sociale, è al contrario in Olivetti una precisa consapevolezza, che lo colloca nel solco della più matura e più attuale tradizione socialista. Allorché Olivetti, richiamandosi a Mounier e a Maritain, elabora le «garanzie di libertà in uno Stato socialista» o discorre diffusamente di un «socialismo istituzionale», egli fa coerentemente valere le esigenze fondamentali che hanno storicamente caratterizzato le correnti socialistiche non autoritarie, ossia sottratte alla manomorta di quella contraddizione in terminis che è il marxismo ortodosso, o pietrificato.

Ponendo in via pregiudiziale l’esigenza di garanzie di libertà nello Stato socialista, Olivetti ha avuto il merito di mettere a fuoco quello che è già oggi il dilemma dello Stato sociale. E infatti evidente – per esprimerci assai schematicamente – che lo Stato democratico in senso puramente formale, ossia nel senso del laissez-faire, non garantisce l’esercizio effettivo della libertà dei cittadini come facoltà di fare, né garantisce la libertà come liberazione rispetto alle ipoteche poste allo sviluppo ordinato e omogeneo della società civile dai gruppi di potere privati. Lo Stato democratico deve intervenire per garantire le condizioni minime indispensabili che dànno alla libertà de jure un effettivo contenuto sociologico. Ma siffatto intervento non può d’altro canto aver luogo senza un appropriato apparato di specialisti, ossia burocratico formale, che al limite, senza particolari cautele metodologiche, può sconfiggere e frustrare gli scopi stessi dell’intervento (il problema della «nuova classe»).

Sono da vedersi qui le aporie più gravi, anche politicamente e non solo da un punto di vista tecnico-produttivo, delle pianificazioni centralizzate e rigide. E, d’altro canto, a questo proposito che l’Olivetti offre ai problemi politici e sociali del nostro tempo un contributo di primo piano, forse decisivo: la pianificazione comunitaria. La pianificazione a livello della comunità, teorizzata da Olivetti, è infatti fondamentalmente compatibile con la libertà delle persone e dei gruppi primari direttamente coinvolti nel processo di trasformazione sociale, in quanto a essi non viene semplicemente assegnato il ruolo di beneficiari passivi, ma da essi si richiede al contrario una partecipazione attiva, costante e vincolante. La rivitalizzazione dell’iniziativa. dal basso è la condizione essenziale per lo sviluppo della comunità e per la pianificazione comunitaria. Vale a dire: le riforme strutturali appaiono acquisite non solo teoricamente, bensì quanto alla metodologia (criteri e tempi di attuazione) e al campo circoscritto dell’intervento specifico nel suo doppio aspetto, territoriale e funzionale, e sono inoltre, contro il pericolo di degenerazione burocratica, controllabili, ossia flessibili tanto da poter essere analizzate e corrette riguardo ai loro effetti sulle persone a breve scadenza, oggi, senza lasciarsi abbagliare da inverificabili certezze ideologiche.

2. La crisi della rappresentanza.

Una sera dell’estate 1952, a Chicago, vedeva riuniti attorno ad Adriano Olivetti, in una stanza al primo piano del Quadrangle Club dell’Università, alcuni professori di sociologia, di economia e di scienze politiche. Ricordo Hermann Pritchett, Charles Hardin, John U. Nef, Edward Banfield, David Easton, Herman Finer. Forse vi erano anche Hans Morgenthau e Edward Shils. Olivetti esponeva da qualche tempo il suo pensiero, con calma, ma parlando a scatti e a intermittenze, con quella apparente nervosità un poco asmatica che gli era consueta e che, più che a timidezza, faceva pensare alla cauta ricerca di un impossibile rigore. Von Hayek, credo, o qualche altro noto personaggio accademico, arrivò in ritardo e, sedendo, s’informò discretamente presso i vicini di quello che si diceva. Hermann Finer allora sbottò, sottovoce, ma non tanto da non essere distintamente udito da tutti: «Ha appena finito di spazzar via i partiti politici (political parties are wiped out)».

Scandalo grande quanto gratuito, tipico della mentalità del progressista radicale, del «liberal» americano, culturalmente isolazionista nonostante tutte le professioni di cosmopolitismo, congenitamente incapace di accettare l’alterità dell’altro, per il quale i partiti politici, così come li conosciamo o, più precisamente, come li conosce la tradizione politica anglosassone, e il Parlamento, che ne raccoglie i candidati eletti, sono diventati un feticcio e s’identificano tout court con la sola democrazia possibile.

Lo stesso scandalo dovevo notare, qualche anno più tardi, in un editore inglese, allorché si trattava di pubblicare la traduzione dell’opera fondamentale di Adriano Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, un titolo che Olivetti voleva appunto mutare in quello, che riteneva più appropriato alla materia e più fedele al suo intento profondo, di Democrazia senza partiti politici (Democracy without political parties), ma che all’allarmato interlocutore suonava semplicemente come una blasfema contraddizione in terminis.

Occorre intenderci bene: la posizione negativa assunta da Adriano Olivetti nei riguardi degli odierni partiti politici di massa e l’analisi critica cui sottopone la struttura e il funzionamento del Parlamento non vanno intesi, a nostro giudizio, né in senso moralistico, secondo uno schema di «nobile sdegno» che si erge a difesa dei valori contro la loro pretesa volgarizzazione democratica, salvo poi risolversi in una difesa d’ufficio di ben precisi e concreti interessi sezionali, né in chiave qualunquistica, quasi che il problema consistesse e si risolvesse, semplicisticamente, nel contrapporre paese «reale» a paese «legale», e neppure, da ultimo, in senso corporativistico, ossia nel senso di una illusoria assunzione e omogeneo dissolvimento degli interessi particolari nello «Stato etico», in realtà totalitario. Le istanze critiche mosse da Olivetti al sistema attuale dei partiti e al regime parlamentare derivano coerentemente dal suo concetto fondamentale della comunità come «spazio naturale dell’uomo» e nel contempo «cellula base dello Stato federale».

Secondo Olivetti, infatti, i problemi di fondo della società contemporanea non derivano dalla macchina, dall’applicazione delle tecniche più avanzate su vasta scala oppure, unilateralmente, dalle forme organizzative dell’economia, bensì dal persistere, in un mondo profondamente mutato, di «strutture politiche inadeguate». Le sue istanze critiche investono pertanto e chiariscono, in primo luogo, la crisi della rappresentanza politica.

Di chiarimento la questione ha indubbiamente bisogno. La confusione concettuale e terminologica è in questa materia, a detta di più studiosi, straordinaria. Ne derivano, come ben nota il Giannini, fraintendimenti ed equivoci, soprattutto fra gli uomini politici, «con effetti talora definitivamente ostativi, talora sconcertanti, talora perfino comici, in ogni caso generatori di incomprensioni e malcomprensioni, e quindi nocivi» (1). Si tratta intanto, preliminarmente, di dissipare la confusione fra rappresentanza politica e istituto privatistico del mandato. Se una tale dissipazione non avviene, il problema della crisi della rappresentanza politica non si pone neppure come tale in quanto viene meno lo stesso concetto di rappresentanza politica. Se dovessimo attenerci rigorosamente alla definizione, giuridicamente ineccepibile, che della rappresentanza ci dà il Kelsen, per il quale «per stabilire un vero rapporto di rappresentanza non basta che il rappresentante sia nominato o eletto dal rappresentato; è necessario che il rappresentante sia giuridicamente obbligato a eseguire la volontà del rappresentato e che l’adempimento di questo obbligo sia giuridicamente garantito» (2), parlare di rappresentanza politica non avrebbe senso.

Il Kelsen infatti prosegue affermando che la rappresentanza politica è in realtà, in quanto rappresentanza, una finzione. Secondo il Kelsen si poteva parlare di rappresentanza in senso giuridico proprio prima della Rivoluzione francese in quanto i membri di quei corpi legislativi eletti erano veri rappresentanti, veri mandatari della classe o del gruppo professionale che li aveva scelti, poiché erano soggetti alle sue istruzioni, avevano cioè un mandat impératif, e ne potevano essere revocati in qualsiasi momento. «Fu la costituzione francese del 1791 – scrive il Kelsen – a proclamare solennemente che nessuna istruzione poteva venir data ai deputati, poiché il deputato non doveva essere il rappresentante di un settore particolare, ma dell’intera nazione» (3).

In secondo luogo: occorre non limitare con artifici metodologici la discussione del problema a dissertazioni puramente teoriche o giuridico-formali intorno al sistema rappresentativo ideale, ma di fatto inesistente, che si sottrae pertanto per definizione a ogni verifica. Oltre che all’affermazione di scopi e di modi, vale a dire oltre che alla descrizione del «dover essere» dei sistemi rappresentativi, è necessario procedere all’accertamento di fatto della loro prassi e sostanza sociologica, ossia a) della loro struttura, genesi e composizione; b) dei modi del loro funzionamento; c) della loro efficienza e produttività rispetto ai fini conclamati, che d’altro canto costituiscono le basi stesse della loro legittimità.

Contrariamente alla impostazione di astratto e spesso sterile formalismo giuridico, che appare nella nostra cultura ancora in posizione nettamente dominante, Olivetti situa il problema della rappresentanza politica esattamente là dove esso è significativo, ossia sul piano degli interessi concreti, del loro odierno configurarsi e delle funzioni del potere pubblico, che necessariamente implicano per il loro ordinato sviluppo. «Uno dei fatti più salienti nella storia degli ultimi decenni – scrive Olivetti – è certamente il decadere degli istituti parlamentari in quasi tutti gli Stati. La causa più evidente di un siffatto stato di cose deve ricercarsi nel progressivo evolvere della natura dei problemi sottoposti all’esame degli organi legislativi, che da un contenuto essenzialmente politico hanno assunto un prevalente contenuto economico e sociale. Le procedure parlamentari, in virtù delle circostanze storiche di cui furono l’espressione, sono atte ad affrontare i problemi di carattere generale, mentre si prestano assai meno allo studio dei problemi la cui tecnicità esige la consultazione di organismi specializzati. Troppi problemi sono ormai così complessi che sfuggono all’esame coscienzioso dei parlamentari che non abbiano dedicato gran parte della loro vita allo studio di essi o all’azione in un ambiente ove quei problemi nascono e si sviluppano» (4).

E’ interessante osservare, trattandosi di un uomo così sovente accusato di dottrinarismo utopistico, come la prima causa di decadenza del Parlamento, cioè di «parlamentarismo» inteso nel comune senso derogatorio, individuata da Olivetti, tocchi il problema della sua funzionalità.

La prima ragione di decadenza del Parlamento indicata da Olivetti, è infatti, che esso si trova oggi di fronte a compiti che sono superiori alle sue capacità medie effettive, la cui soluzione richiede una competenza specifica, oltre che una competenza generica. Lo Stato moderno ha di molto allargato la sfera del proprio intervento. L’attività legislativa ha ormai praticamente coperto tutta l’area dei rapporti inter-individuali significativi.

Anche nel campo dell’attività economica, assai poco, o nulla, è lasciato alle cosiddette forze automatiche del mercato. I parlamentari sono chiamati non solo, e non tanto, a esprimere opinioni o principi di preferenza, ma veri e propri giudizi tecnici, di esperti, di gente che sa. Ma sono i parlamentari veramente esperti? Lo potrebbero ragionevolmente essere, considerata la quantità e la varietà dei problemi sui quali sono chiamati a legiferare? E d’altra parte possibile controllare efficacemente e intervenire su ciò che non si conosce?

Olivetti offre alcuni esempi di legislazione, che implicano discussioni tecniche e dettagliate ancor prima che possa, con cognizione di causa, intervenire il giudizio politico: l’adozione di un piano di sicurezza sociale, l’approvazione di una legge urbanistica, di una riforma fiscale, e così via. Ma evita con cura di seguire la ricetta qualunquistica dello «Stato amministrativo», ossia di coloro che riducono completamente, ossia annullano il giudizio politico, espressione della maggioranza, nel giudizio tecnico-funzionale dell’esperto, così come rifiuta, decisamente, la pseudo-soluzione corporativa (5).

Egli si limita a registrare, con molta accuratezza, che «nei parlamenti formati, come ora avviene, senza alcuna discriminazione, non esiste un rapporto adeguato tra competenza politica e competenza amministrativa, rapporto che è garanzia di una maggiore saggezza dell’assemblea. Senza contare poi che, in un Parlamento cosi costituito, la reale competenza è sopraffatta normalmente dall’abilità dialettica o oratoria» (6).

Dalla causa funzionale della decadenza parlamentare, dalla sfasatura oggi accertabile tra le esigenze di una legislazione adeguata ed efficace e le reali capacità dei legislatori, Adriano Olivetti risale cosi alla causa genetica. Come è formato, e da chi, il Parlamento? Chi sono i parlamentari? Come vengono scelti, come candidati? E da chi? In base a quali criteri? E poi, come, con quale legge, vengono eletti? A chi chiedono direttive? Agli interessi particolari dei loro elettori, al collegio? Oppure alla loro coscienza? O all’interesse generale della «nazione»? A chi devono obbedienza, pena la non rielezione? Quale è il ruolo, la funzione e la responsabilità degli odierni partiti di massa in questa situazione?

Il discorso di Olivetti è a questo proposito singolarmente privo di complessi reverenziali verso i dogmi ricevuti. La sua indipendenza di giudizio è tale che da taluno è stata scambiata per l’inconsapevolezza dell’autodidatta. Egli afferma: «Quando scoppiò, nel settembre 1939, la Seconda guerra mondiale, libertà e democrazia erano già da tempo scomparse in quasi tutti i paesi dell’Europa continentale, poiché l’esperimento iniziatosi nel 1919 di applicare la democrazia parlamentare in tutti gli stati europei era ormai clamorosamente fallito…

Ed ecco che oggi, riconquistate le libertà nominali, all’indomani di una catastrofe che avrebbe dovuto implicare la revisione di ogni valore, quel tipo di repubblica parlamentare che non seppe quasi in nessun luogo resistere alla sopraffazione delle bande armate della reazione rinasce, di poco modificata, dalle prime costituenti europee (quella italiana e quella francese) senza che un serio processo di elaborazione scientifica, senza che delle idee nuove abbiano potuto penetrare in queste nuove carte di diritti, in queste nuove organizzazioni dello Stato… Così all’alba di un mondo che speravamo nuovo, in un tempo difficile e duro, molte illusioni sono cadute, molte occasioni sfuggite, perché i nostri legislatori hanno guardato al passato e hanno mancato di coerenza e di coraggio. L’Italia procede ancora nel compromesso, nei vecchi sistemi del trasformismo politico, del potere burocratico, delle grandi promesse, dei grandi piani e delle modeste realizzazioni» (7).

3. Le cause della decadenza del Parlamento.

A giudizio di Olivetti, una parte essenziale di responsabilità per questa situazione precaria ricade sui partiti politici, indipendentemente dal loro orientamento ideologico.

La causa genetica della decadenza parlamentare investe necessariamente i partiti politici perché, nelle condizioni odierne, i partiti hanno di fatto arrogato a sé l’organizzazione politica esclusiva della pubblica opinione, la scelta dei candidati ai pubblici uffici e la preparazione, praticamente insindacabile, delle liste, il controllo dei gruppi parlamentari, la formazione del governo e la designazione stessa del primo ministro. Olivetti cita Gobetti («nella vita attuale dei partiti di concreto c’è solo un circolo pernicioso per cui gli uomini rovinano i partiti e i partiti non aiutano il progresso degli uomini»), il Gioberti del Rinnovamento civile d’Italia, Antonio Rosmini e sopra tutti l’aureo libretto di Marco Minghetti, I partiti politici e la loro ingerenza nelle pubbliche amministrazioni. Ma le sue letture sono assai più vaste e il suo orizzonte ha una prospettiva più ampia del moralismo gobettiano e dell’onesto, ma angusto, municipalismo del Minghetti.

Come riconosce in più luoghi Giuseppe Maranini, coniatore del fortunato neologismo, il fenomeno della partitocrazia, tecnicamente favorito dall’adozione della rappresentanza proporzionale, è stato analizzato da Olivetti con rigore scientifico (8). Egli ne ha illustrato le conseguenze degenerative sul livello di competenza, sull’autonomia e sulla rappresentatività reale del Parlamento e d’altro canto ne ha sottolineato l’effetto più grave, dal punto di vista dell’interesse pubblico, ossia la confusione dei poteri e la conseguente stasi dell’esecutivo. Olivetti ha condensato le risultanze della sua ricerca in alcuni punti che riguardano le deformazioni più gravi e più o meno palesi del regime parlamentare classico, quelle deformazioni che in parte sono certamente da attribuirsi al trasferimento meccanico del regime parlamentare inglese, fondato sul two-parties system e su una unwritten constitution non esportabile ai paesi del continente europeo, ossia a situazioni dominate da un numero maggiore di partiti e contrassegnate da una minore omogeneità sociale e culturale:

a) non è il primo ministro che sceglie i propri collaboratori, bensì i gruppi parlamentari che si dividono tra loro i seggi ministeriali; b) i governi non solo non sono omogenei, ma la loro eterogeneità varia a ogni crisi ministeriale; c) l’ordinamento razionale dell’amministrazione dello Stato è addirittura compromesso: si creano o Si sopprimono ministeri o sottosegretari non in relazione alle effettive necessità del paese, ma per soddisfare le esigenze dei gruppi parlamentari; d) la instabilità dei governi e la loro disorganicità impediscono la preparazione e l’attuazione di programmi vasti, coerenti e organici; e) la situazione è poi ancora peggiorata dal carattere provvisorio delle coalizioni di partito e dallo spirito di manovra; f) l’introduzione della rappresentanza proporzionale ha reso ancor più difficile il funzionamento del regime parlamentare.

In conclusione, Adriano Olivetti perviene a formulare lucidamente il paradosso (la causa politica di decadenza) che sembra caratterizzare la democrazia parlamentare del nostro tempo e che ne indica duramente i limiti: da una parte, il Parlamento è onnipotente e paralizza l’esecutivo; dall’altra, il Parlamento è funzionalmente impotente, rispetto ai nuovi compiti, e politicamente succube, rispetto ai partiti politici. La soluzione proposta da Adriano Olivetti non è una ricetta bell’e fatta, da applicarsi meccanicamente, una volta per tutte. Olivetti non si lascia tentare e non cade vittima di alcun vieto espediente. Anche allorché critica vivacemente la rappresentanza proporzionale, ha cura di aggiungere subito che la soluzione non consiste in un semplicistico ritorno al collegio uninominale. La soluzione proposta da Olivetti si raccomanda all’attenzione degli studiosi, degli uomini politici e in particolare di quei socialisti che del socialismo non hanno fatto una dogmatica e vuota professione di fede, per il suo carattere apparentemente contraddittorio, vale a dire per il suo carattere di giudiziosa gradualità e nello stesso tempo di organica completezza, tale da fronteggiare il problema unitariamente, sul piano funzionale, sociologico e politico.

Ho cercato di enucleare, sulla scorta dei testi olivettiani, le tre cause di decadenza della democrazia parlamentare, che sono alla base della crisi attuale della rappresentanza politica e che ho rispettivamente definito la causa funzionale, la causa genetica e la causa politica. Quanto alla cura della decadenza, mi limito in questa sede a pochi cenni poiché il discorso non si esaurisce semplicemente in alcune tecniche, come potrebbero pensare dei costituzionalisti ortodossi, bensì chiama direttamente in causa la concezione dello Stato e del potere. A questo riguardo, del resto, Olivetti non si fa illusioni: «nessuno potrebbe pensare di risolvere una crisi così grave con riforme parziali» (9). Scartate le pseudo-soluzioni qualunquistiche e corporative, criticata la «democrazia popolare» teorizzata dai comunisti e rilevata l’insufficienza, concettuale e organizzativa, dei vari tentativi di «terza forza», liquidate concisamente, ma con indubbio rigore critico, altre «deviazioni del pensiero politico» (concezioni dello Stato tecnocratiche e organicistiche), Olivetti propone quella che chiama la «democrazia integrata».

«Alla democrazia autoritaria dei partiti cattolici, – egli scrive – alla democrazia progressiva dei partiti comunisti, noi opporremo una democrazia integrata, un tipo nuovo, una forma nuova di rappresentanza più forte, più efficiente della democrazia ordinaria, ma altrettanto rispettosa dell’eterno principio dell’uguaglianza fondamentale degli uomini e della libertà di ognuno» (10).

Questo nuovo tipo di rappresentanza implica il ritorno alla fonte naturale della legittimità del potere, ossia alla «comunità concreta», là dove finalmente trova soluzione il dilemma, classicamente formulato da Edmund Burke nel suo famoso discorso agli elettori di Bristol, fra il rappresentante del gruppo particolare e il rappresentante della «nazione», e nello stesso tempo richiede la riscoperta della base territoriale e dell’ordine funzionale senza dei quali non può inverarsi storicamente la democrazia.

Note:

1. Cfr. Massimo Severo Giannini, Prefazione alla traduzione italiana di G. Burdeau, Il regime parlamentare, Edizioni di Comunità, Milano 195°, p. 1 (ed. or. Le régime parlementaire dans les constitutions européennes d’après guerre, Editions Internationales, Paris 1932).

2. Cfr. H. Kelsen, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1945 [trad. it. Teoria generale del Diritto e dello Stato, Edizioni di Comunità, Milano 1952, p. 295].

3. Ibid., pp. 295-96. Per un chiaro riassunto dei termini della questione, cfr. G. Sartori, La rappresentanza politica, in «Studi Politici», IV, serie Il, n. 4, pp. 527­613.

4. Cfr. A. Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, Nuove Edizioni, Ivrea 1945, p. 217.

5. Per il rifiuto della rappresentanza corporativa o professionale, a conforto del quale si cita anche il Kelsen, cfr. A. Olivetti, Società, Stato, Comunità. Per una economia e politica comunitaria, Edizioni di Comunità, Milano 1952, pp. 142-44.

6. Cfr. A. Olivetti., L ‘ordine politico delle comunità cit., p. 218.

7. Cfr. Id., Società, Stato, Comunità cit., pp. 133-35.

8. Si veda in particolare la commossa rievocazione stesa da G. Maranini in aa. vv ., Ricordo di Adriano Olivetti, Milano 1960, pp. 80-85.

9. Cfr. A. Olivetti, L ‘ordine politico delle comunità cit., p. 219.

10. Cfr. Id., Società, Stato, Comunità cit., p. 148.

Da http://www.societaperta.it/index.htm

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