Olivetti. L’ultima sfida: l’Armata Rossa

Ore otto del mattino, una volta si iniziava a lavorare a quell’ora, del 10 di gennaio 1994.

“Il sole 24 Ore” del 22 dicembre 1993, aveva riportato una notizia clamorosa: l’ing. De Benedetti comunicava che l’Olivetti aveva vinto un grande progetto europeo per la riconversione alla vita civile degli ufficiali dell’ex Armata Rossa divenuti esuberanti con la drastica riduzione dei suoi organici. La notizia mi aveva colpito molto, come non avrebbe potuto? L’ex “prima fabbrica di macchine per scrivere” aveva vinto il progetto sulla base della credibilità e della grande esperienza manageriale che poteva ancora vantare; perché il progetto era proprio basato su questo: il trasferimento di know how manageriale agli ufficiali, per farli diventare manager nella vita civile. Il progetto, apprenderò poi, è il Russian Officers Re-Training Programme.

Mai avrei immaginato che quella notizia mi potesse riguardare.

Grande è la mia sorpresa, quando quella mattina, il gestore del Personale mi chiama per chiedermi di recarmi subito nel suo ufficio. Sono francamente sconcertato e mi domando la ragione di tanta fretta a un’ora così insolita. Qui apprendo con ancora maggior sorpresa che quel progetto ha bisogno di me.

La Russia la conosco. La prima visita l’ho fatta nel febbraio 1974 per la presentazione del primo sistema di scrittura Olivetti, la S14. Di quel viaggio ricordo tutto: atmosfera irreale per un occidentale, traffico quasi inesistente, nessun’insegna pubblicitaria, un mondo grigio e incolore, ma con un profondo fascino.

Ricordo Mosca sotto la neve, il mitico Hotel Metropol, crocevia della storia e dei racconti di spionaggio, il cimitero di Novodievich, con la tomba di Kruscev non visitabile dal pubblico. Come in un film rivedo nella grande Piazza Rossa sotto le mura del Kremlino il cambio della guardia al mausoleo di Lenin in una notte di neve. L’atmosfera è irreale. I fari posti sui tetti dei famosi magazzini GUM perforano la notte e la neve e illuminano le rosse mura del Kremlino e il mausoleo di marmo rosso scuro, creando una cartolina dove il bianco e il rosso sono i colori predominanti. Sulla cupola più alta del Kremlino sventola visibilissima, perché illuminata, la bandiera rossa, completamente spiegata per l’effetto di potenti getti d’aria. Il primo rintocco della campana di mezzanotte dalla torre che sovrasta l’ingresso del Kremlino si spande sulla piazza e con cronometrica precisione la guardia varca la porta, statue più che uomini, movimenti perfetti e cadenzati, il loro passo è scandito dai ritocchi della campana, quattro soldati nei loro cappotti azzurro scuro e con il berretto con la fascia rossa, preceduti da un ufficiale, avanzano sul marciapiede tra grossi fiocchi di neve, tengono con il palmo della mano il fucile perfettamente verticale, vanno a sostituire quattro altre statue al loro posto di guardia nella bianca notte moscovita. Sullo sfondo della piazza sembra emergere la cattedrale di San Basilio, con le sue incredibili torri colorate imbiancate di neve; è talmente bella che l’architetto che l’ha costruita è stato accecato perché non potesse ripetere più nulla di simile. Come dimenticare tutto questo? A riemergere è però soprattutto il ricordo della gente. Con i russi noi italiani entriamo facilmente in sintonia, loro, in quegli anni, sono tutti “Tavarisc”, compagni, mentre noi, gli occidentali, siamo “Gaspadin”, signori. Ricordo poi gli altri numerosi viaggi e le numerose esposizioni al Sokolniki Park in inverno, con le sue betulle ancora più bianche per la neve. In particolare quella dell’Olivetti e delle aziende del gruppo CIR di De Benedetti, in cui l’allora giovane Colannino, Amministratore Delegato di una delle aziende di quel gruppo, viene da me visto per la prima volta. Correva l’anno 1982, nessuno, certo, poteva immaginarsi che sarebbe diventato l’Amministratore Delegato dell’Olivetti. O quella, sempre al Sokolniki Park in un torrido giugno, organizzata dall’ICE (Istituto Commercio Estero), con il soggiorno all’Hotel Cosmos, allora alla periferia di Mosca, con davanti, come dimenticarselo, un mausoleo con un missile puntato verso il cielo a perenne ricordo di Gagarin e dello straordinario sforzo della Russia per conquistare lo spazio. Insomma la Russia è piena di ricordi.

L’elenco dei ricordi rischia di diventare troppo lungo, ora siamo nel 1994 e il Progetto Russia incombe. Non avendo partecipato alla redazione del progetto, vengo introdotto gradualmente, dapprima come Planner e Financial Controller e dopo tre mesi come capo del progetto, ossia come dicono alla Commissione Europea: Project Co-ordinator.

Inizia così un’altra esperienza, piena d’incognite e di speranze, all’Elea, società di formazione manageriale dell’Olivetti, a cui l’Azienda ha delegato l’esecuzione del progetto vinto da un Consorzio europeo, di cui è la capofila, a cui partecipano altre tre società europee. La seconda per importanza è la tedesca Gopa, società di formazione professionale che ha già fatto esperienza di formazione di reinserimento nella vita civile di militari con le truppe russe stazionate nell’ex Germania dell’Est. Terza per quota di partecipazione è la francese Sodeteg, che utilizza anche, come subfornitore, l’Isvor Fiat, ossia il centro di formazione professionale della Fiat. Infine la greca Infogroup, piccola società di formazione greca di Atene specializzata in turismo, ma molto vicina ai russi e da loro imposta al Consorzio.

Il progetto inizia ufficialmente il 10 gennaio 1994 e finisce il 10 gennaio 1997. Tre anni giusti.

Gli obiettivi del progetto sono molto ambiziosi:

  • Nel lungo termine: contribuire allo sviluppo economico sostenibile nelle diverse regioni della Federazione Russa.
  • Nel medio termine: facilitare il reimpiego nella vita civile di un gran numero d’ufficiali messi in congedo dalle forze armate.
  • Nel breve termine: creare una rete di 15 centri di formazione con uno staff di formatori in grado di erogare corsi di formazione manageriale per i profili professionali più rilevanti emergenti nelle varie Regioni russe.

I gruppi di persone su cui operare, sono gli staff amministrativi e direttivi dei 15 centri di formazione sparsi da San Pietroburgo a Vladivostok, 404 insegnanti, 32 consulenti del lavoro, “job counselors”, e un minimo di 16.000 ufficiali.

Il tutto inizia con un’operazione mai fatta in Russia e impensabile solo qualche anno prima. Un’analisi socio-economica estesa su tutte le Regioni russe, “Regional Analysis”, condotta da esperti occidentali affiancati da operatori russi. Lo scopo di questo lavoro è arrivare a determinare i profili professionali necessari in ciascuna Regione, “Oblast”, su cui poi sviluppare la formazione degli ufficiali colà dislocati. Nessun occidentale aveva mai potuto accedere così profondamente e pervasivamente nella profonda Russia, alle sue strutture economiche e sociali e ai suoi dati economici e produttivi. Un fatto storico. Il lavoro di raccolta dei dati e della successiva analisi è portato a termine nei primi mesi del progetto. Il documento fornisce uno spaccato delle condizioni economiche e sociali della realtà russa dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Si tratta, quindi, di un documento con un valore storico economico unico per chi voglia affrontare lo studio di quel periodo e per gli organismi internazionali che si occupano di sviluppo delle risorse economiche. Proprio per questa ragione viene pubblicato dall’Unione Europea e presentato, insieme all’intero staff del Progetto, all’OCSE (Organisation de coopération et de développement économiques) a Parigi nel settembre 1994.

In conformità a questo studio è dapprima avviata la fase di redazione del materiale di formazione, per le varie figure professionali che la “Regional Analysis” ha permesso di individuare, e poi erogata la formazione ai formatori russi nei vari centri europei del Consorzio. Ad Ivrea molti ricordano ancora “i russi” alloggiati alla Serra e al Residence di Pavone, negli anni 1994 e 1995, per frequentare i corsi all’Elea. Per i russi è un’esperienza incredibile, per la prima volta si trovano in Occidente e devono confrontarsi con una realtà nuova completamente diversa. Il problema non è solo loro, ma anche nostro che dobbiamo seguirli nei lunghi mesi di permanenza. L’ELEA fa di tutto per rendere il loro soggiorno piacevole e interessante, i programmi formativi, infatti, vengono integrati da visite alle realtà produttive e di servizio più significative.

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Un gruppo d’insegnanti russi partecipante ai corsi in Elea, al Castello di Masino.

Proprio questo tipo di visite ha un obiettivo formativo particolare: immergere i nostri allievi, tutti professori o assistenti universitari, nella realtà produttiva di un’economia capitalistica. Realtà difficile da capire, al ritorno dalle visite si hanno lunghe discussioni anche sollecitate dai nostri tutor. Alcuni temi sono di difficile comprensione, come quello della qualità totale, o quello della formazione dei prezzi, oppure la determinazione di quante unità lavorative occorrano per produrre un determinato bene, per questo viene richiesta con insistenza se esista una formula matematica. Difficile per loro rendersi conto che le variabili sono molte e non sempre sono quantitative, come li ha abituati la loro formazione.

Ai formatori usciti dai centri occidentali, tocca poi trasferire il know-how acquisito agli ufficiali da congedare: i futuri manager. Al progetto, nei tre anni della sua durata, lavorano più di 170 esperti e tutor occidentali.

Il risultato finale, che si può consuntivare nella Conferenza Internazionale di chiusura del progetto, a Mosca nel dicembre 1996, è la formazione, nell’Unione Europea, di circa 600 insegnanti russi e, in Russia, di 17.000 ufficiali, formati nei vari profili manageriali, di cui il 60% già impiegati appena ultimati i corsi.

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Mosca. Conferenza Internazionale di chiusura del progetto.

Molto di più di quanto l’Unione Europea si aspettava, inoltre sono stati rispettati tempi e budget, anzi si è risparmiato qualche cosa, a dispetto di molti pregiudizi, circolati sopra tutto in ambito anglo-tedesco, sulla professionalità e onesta degli italiani. D’altronde su questo tipo di progetti, nei primi anni Novanta, gli italiani sono in pratica assenti. L’Olivetti con il suo “progetto Russia” rappresenta quasi la totalità dei fondi utilizzati da Aziende italiane per progetti europei nei Paesi dell’ex Unione Sovietica.

Per l’Elea rappresenta il culmine della sua esperienza di formazione e il 27% di utile operativo, cosa che è bene scrivere prima che si perda per sempre. Il successo del progetto è il frutto del lavoro di team e delle varie professionalità che l’Elea ha saputo mettere insieme.

Sei mesi dopo la fine del “Progetto Russia”, si torna in Olivetti, non prima però di aver vinto un’appendice al “Progetto Russia”, finalizzata a sviluppare alcune tematiche che avrebbero dovuto assicurare la sostenibilità dei centri nel tempo, trasformandoli, da centri nati con lo specifico scopo del reinserimento degli ex ufficiali, in centri di formazione manageriale permanente.

Invano ho cercato, prima di rientrare in Olivetti, di convincere il management Elea a continuare sulla strada dei Progetti Internazionali, in cui grazie ai risultati acquisiti è stato accumulato un indiscusso credito presso la Commissione Europea, tanto da avere assegnato il proseguimento del progetto senza gara pubblica. Troppo tardi, ormai l’Azienda, vista come Gruppo, che c’era tre anni e mezzo prima, non esiste più: in Elea non si vuole più investire in attività che non siano immediatamente redditizie e che contengano qualche margine di rischio, soprattutto fa paura l’immobilizzo di capitali per le fideiussioni in caso d’aggiudicazione delle gare. La fideiussione per il “Progetto Russia” era stata, infatti, data dall’Olivetti, ormai in gravi difficoltà finanziarie. Questa situazione ha tarpato le ali all’acquisizione di almeno due progetti, che potevano essere vinti se Elea avesse accettato di fare da capofila: uno nella zona del Lago Bajkal, ai confini con la Mongolia, e un altro nell’area compresa tra la zona di confine con la Finlandia, meglio nota come Careglia e il porto civile più a Nord della terra, oltre il circolo polare artico, Arkhangelsk. Della preparazione di questi progetti mi rimangono almeno gli indimenticabili ricordi di viaggio. La corsa del treno, per giungere a Petrozavodsk e la sua Università, in mezzo alle immense foreste nordiche di betulle e conifere coperte di neve che si aprono su superfici di laghi ghiacciati, avendo come compagni di viaggio i marinai diretti alla base navale di Murmansk, nell’estremo Nord. Il porto d’Arkhangelsk bloccato dalla glaciazione invernale, con gli abitanti che attraversano la baia sul ghiaccio per recarsi alle isole abitate. Il pauroso disgelo del Bajkal con i blocchi di ghiaccio che si accumulano fragorosamente all’imbocco dell’Angara affluente dello Jenisej.

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Il lago Bajkal in primavera.

Il lungo viaggio, in una Ziguli piena di spifferi, nella gelida taiga siberiana e nei boschi di conifere coperti di neve, lungo quell’infinita strada bianca, per arrivare a quel colle, da cui si vede di fronte il Bajkal e giù in basso di lato la Transiberiana, che i nativi di religione animista visitano per onorare e invocare gli spiriti, un albero ormai disseccato è il loro totem, a cui ognuno di loro ha attaccato il suo nastrino pieno di speranza e di fede, sono centinaia i nastri svolazzanti. Davvero gli olivettiani non hanno conosciuto confini.

La conferma che le cose in Olivetti siano drasticamente cambiate avviene con il rientro dall’Elea a Palazzo Uffici nella seconda meta del 1997. L’ufficio che mi viene assegnato è molto grande, ormai gli spazi vuoti non si contano, ma è del tutto privo di mobili, tutti quelli dismessi sono stati alienati, non si riescono a mettere insieme quattro pezzi appena decenti. Per fortuna in Elea i colleghi sono degli amici e non hanno alcuna difficoltà a trasferire i mobili del mio ufficio. Si ha la spiacevole sensazione che la grande Olivetti, la “nostra” Olivetti, sia veramente finita, eppure tre anni e mezzo fa esisteva ancora.

Giuseppe Silmo

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