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Presentazione del libro con Federico Enriques, Vasco Errani e Paolo Rebaudengo a Bologna nella Sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio il 6 aprile 2017.

Notizie sull’autore e sui presentatori.

Nerio Nesi. Banchiere e uomo politico, nato a Bologna nel 1925, dopo aver partecipato alla Resistenza, si è laureato in Giurisprudenza. Milita nella DC, venendone espulso nel 1946 per aver partecipato con Enrico Berlinguer ad una missione in URSS. Nel 1960 entra nelle fila del PSI, divenendo presto un dirigente della componente lombardiana.

Nel 1958 lascia la RAI ove svolgeva un’attività di responsabilità nel settore amministrativo, per entrare alla Olivetti, ove era stato assunto da Adriano come Responsabile dei Servizi Finanziari. Nel 1967 diviene Vicepresidente della Cassa di Risparmio di Torino; negli anni ottanta è Presidente della Banca Nazionale del Lavoro. In polemica con Bettino Craxi nel 1992 lascia il PSI; nel 1996 è eletto alla Camera dei Deputati nella lista di Rifondazione comunista e nel 2001 in quella dell’Ulivo. È stato Ministro dei Lavori pubblici nel governo Amato II.

Federico Enriques. Nasce a Udine nel 1941. Il padre Giovanni è stato direttore generale della Olivetti negli anni cruciali durante i quali Adriano dovette rifugiarsi in Svizzera (si veda Giovanni Enriques. Dalla Olivetti alla Zanichelli di Sandro Gerbi, Hoepli Editore, 2013). Il nonno Federigo è stato un grande matematico e filosofo della scienza di fama internazionale. Dopo gli studi secondari a Torino e Milano e quelli universitari a Bologna e dopo una breve esperienza come assistente volontario alla cattedra del giurista Pietro Rescigno, Federico Enriques ha lavorato alla casa editrice Zanichelli di Bologna, nata nel 1859 e di proprietà della famiglia dal 1946. L’ha diretta dal 1970 al 2006, quando ne diviene Amministratore delegato e Presidente. Alla storia della casa editrice ha dedicato il libro Castelli di carte (Bologna, Il Mulino, 2008). Alle politiche del 2006 è stato eletto senatore nelle liste dei Democratici di Sinistra.

Vasco Errani. Nasce a Massa Lombarda (Ravenna) nel 1955. Assessore al Turismo della Regione Emilia-Romagna, ne diviene Presidente dal 1999 al 2014. Dal 2016 è stato Commissario straordinario di Governo alla Ricostruzione delle aree colpite dal Terremoto del Centro Italia. Esponente del PCI, del PDS, dei DS, del PD. Abbandona il PD insieme a Pier Luigi Bersani in dissenso con la linea politica del segretario Matteo Renzi aderendo al gruppo di Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista. E’ eletto Senatore tra le file di Liberi e Uguali nelle elezioni del 4 marzo 2018.

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Dopo il libro autobiografico “Al servizio del mio Paese”, Nerio Nesi ha pubblicato “Le passioni degli Olivetti”, dedicato a Beniamino Carino De Liguori, figlio di Laura Olivetti. Non ha la pretesa di scrivere la biografia della famiglia, ma di raccogliere, per ciascuno dei componenti, a partire dal fondatore Camillo, riflessioni e ricordi. Ne risulta così un libro snello e denso allo stesso tempo.

Bella la prefazione di Giuseppe Berta, storico dell’industria, che dello scritto apprezza soprattutto l’esperienza aziendale, dove conta il collettivo, più delle singole persone e dei ricordi degli incontri con Adriano.

E tuttavia lo stesso Berta non riesce a eludere la figura di Adriano, Deus ex machina dell’impresa, specie nella sua veste di “pescatore di uomini” e per la sua visione “strategica”. Significativa quella, per esempio, di regalare nel 1954 (!) alla pubblica amministrazione, affinché avviasse la sua modernizzazione, il primo grande calcolatore, l’Elea 9003.

Tuttavia Berta sbaglia (come sbaglia Paolo Bricco, citato da Berta) quando afferma che “la transizione dalla meccanica alla elettronica” avviene solo grazie a Carlo De Benedetti. Il vero promotore fu Roberto, per quanto contrastato. Afferma inoltre che, a differenza di Walter Rathenau, che pagò le sue idee con la vita, Adriano ottenne più attenzione per i successi imprenditoriali che per le sue idee sociali e politiche, essendo queste fortemente integrate con quelle industriali. Si potrebbe forse piuttosto affermare che Adriano si sia fatto intendere più con le parole della pianificazione urbanistica che con quelle della politica.

Ma si espresse chiaramente, nell’età della guerra fredda, sulla sua idea di “un’impresa al di là del capitalismo e del socialismo”. Non esiste forse un pensiero economico compiuto di Adriano, che aveva però una visione dello sviluppo nel quale si integravano economia, società, territorio, industria e ambiente, salvaguardando la specifica identità sociale: “sviluppo senza fratture” basato sui tre elementi del lavoro, del territorio, della cultura.

A proposito dell’acquisizione della Underwood, Berta privilegia quanto riferì Gabetti (“chi aveva visto gli impianti e analizzato i bilanci disse di no all’acquisizione, ma A. decise da solo”) piuttosto di quanto disse lo stesso A. (“se avessi mandato meno avvocati e più ingegneri” sarebbe emerso quanto fosse arretrata quella industria).

Discutibile anche il giudizio di Berta su A. “iper-individualista che si fidava solo del proprio giudizio, difficilmente riconducibile alla figura dell’edificatore dell’impresa responsabile raccontata da Luciano Gallino, tanto da non aver previsto meccanismi di delega, di sostituzioni in caso di necessità, come quando scomparve repentinamente nel 1960”.

Altrettanto discutibile il seguente severo giudizio: “La passione civile non basta a compensare l’assenza di meccanismi di governo complessi in grado di far sopravvivere l’impresa nei frangenti calamitosi. Né bastano selezione e aggregazione dei talenti se poi non si assegnano loro deleghe e poteri definiti. Adriano preferiva lasciare tutto allo stato fluido in modo da poter mutare a suo piacimento compiti e assetti organizzativi”.

La sua crisi si inquadra nel declino della borghesia industriale e alla rinuncia dello Stato ad esercitare un qualsiasi ruolo nell’economia industriale e finanziaria. Berta considera curiosamente impossibile in Italia la presenza di grandi imprese nazionali e sostiene che la sola possibilità di darsi una politica industriale debba basarsi su un “capitalismo leggero”, fondato sulle PMI. Le storie di Adriano Olivetti, Enrico Mattei, Felice Ippolito sono state, secondo lui, eccezioni. Ma allora Fiat, Pirelli, Montedison, Sip, Italtel, Telettra, Alitalia, Alenia?


Il libro di Nesi inizia da Camillo (1863 – 1943), il cui nome venne scelto per ricordare il Conte Benso di Cavour. La sua fu una vita aperta ai movimenti di unità nazionale, ma anche di spinta socialista internazionale, di progresso umano e sociale ma anche scientifico e di rivoluzione industriale. Il suo viaggio in America, con Galileo Ferraris, nel 1892, poco dopo la laurea in ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Torino, segnò la sua vita e il suo futuro.

Fece parte della nuova classe dirigente della fine dell’800, accanto a quella dei filosofi, scienziati, artisti: quella dei tecnici, dalla quale emersero nuovi capitani di industria e imprenditori (i Morgan, Rockefeller, Carnegie, Rothschild, Ford, Pirelli, Tosi, Falck, Riva, Agnelli).

Camillo si distingue per una singolarità di carattere, di ricchezza religiosa, severità morale, coerenza politica. Amico di Filippo Turati, finanziatore e collaboratore di giornali antifascisti, fustigatore della classe dirigente. Dice A. del padre: “geniale talento economico, ma disprezzava la struttura capitalistica, il sistema bancario, la finanza, la borsa, i titoli. Dominatore, accentratore, scarsamente capace di utilizzare le altrui esperienze. Adeguava lo sviluppo dell’azienda alle proprie risorse finanziarie e alla personale attività organizzativa”.

Nel 1908 nasce la Olivetti con quattro ragazzi inesperti ai quali Camillo insegna l’uso della lima e, la sera, elementi di meccanica e di elettricità. Sei anni dopo i dipendenti sono già 200. Durante la prima guerra mondiale “la nostra, a differenza di altre industrie, non ebbe grandi guadagni, ma la soddisfazione di aver servito il nostro Paese con onore e fedeltà”.

Nel dopoguerra vennero occupate le fabbriche, la sola presenza di Camillo fece desistere i sindacalisti dall’occupare la Olivetti, convinti che gli interessi degli operai erano ben tutelati dallo stesso. Quando il fascismo ne vietò la celebrazione continuò a radunare operai e ingegneri dicendo “tutto ciò che di nuovo e bello ha avuto il Primo maggio appare più radiosamente proprio nel momento in cui viene vietato festeggiarlo.

Entra nel Consiglio comunale di Ivrea nel 1906 come socialista.

Scrive su “Il grido del popolo”, su “Fede nuova” e pubblica “L’azione riformista”. Scrive nel 1933: “la base etica dell’economia capitalistica sta nella esaltazione del lavoro e del risparmio, quello che proviene dal solo lavoro”.

Superata la crisi del 1929, subentra il figlio Adriano che assume la presidenza nel 1938. Camillo si dedica a scrivere di religione, economia, e politica. Con l’avvento delle leggi razziali del 1943 dovette rifugiarsi nelle colline tra Ivrea e Biella. Morì in quello stesso anno. Nesi riporta quanto scrisse Libero Bigiaretti: “Il giorno in cui fu trasportato al cimitero pioveva; ma da Ivrea, dai borghi vicini, dai vari luoghi del Canavese si erano arrampicati su per la Serra, sino a Biella i suoi operai. Erano arrivati con ogni mezzo, i più in bicicletta, con gran fatica e a grave rischio. I tedeschi già davano la caccia ai partigiani, razziavano uomini, minacciavano intere popolazioni. Il piccolo cimitero israelitico di Biella poteva diventare un posto di massacro; il recarvisi rappresentava una sfida temeraria; ma esso si popolò, quel giorno, di uomini silenziosi, a capo scoperto, sui cui volti la pioggia cancellava inutilmente le lacrime.”

Poco prima di morire aveva lasciato un messaggio ai sindacalisti: “Non siamo ancora liberi, preparate a difendere voi stessi, le vostre famiglie le vostre case, le vostre macchine. Armatevi, nascondete le armi, siate forti”.

Adriano nasce l’11 aprile 1901. Fu molto attento, negli anni della ricostruzione, alle opere di Federico Caffè e di Pasquale Saraceno, che contribuirono al Piano di Ezio Vanoni, i cui obiettivi prioritari erano la piena occupazione e un inizio di pianificazione dell’economia nazionale. I temi più dibattuti, grazie anche ai lavori di Piero Sraffa erano il rapporto “crescita/distribuzione del reddito” e il legame “distribuzione del reddito/risparmio”.

Nel 1946 nasce il giornale “Comunità”. A. scrive: “i morti per la libertà perché ebbero fede nell’uomo non devono essere traditi: un mondo nuovo deve sorgere dal loro sacrificio, perché non sia stato vano quello di Amendola, di Gramsci, di Don Minzoni, di Matteotti, di Rosselli, dei milioni di morti. La responsabilità dei vivi è di non tradire”.


Tra gli scritti che più lo ispirarono, quelli di Simone Weil, Jacques Maritain, Emmanuel Mounier. Di Walther Rathenau volle raccogliere l’opera omnia; fece tradurre da Franco Momigliano “Von kommanden Dingen” (“Delle cose che verranno”). Fu colpito dal discorso di F. A. Roosevelt al Congresso del 29 aprile 1938: “la prima verità è che la libertà di una democrazia è salda se il popolo tollera la crescita di un potere provato al punto che esso diventa più forte dello stesso Stato democratico. Questo in essenza è fascismo. La libertà di una democrazia non è salda se il suo sistema economico non riesce a fornire occupazione e non produce e distribuisce beni in modo tale da sostenere un livello di vita accettabile……”.

Quei principi risuonano nei discorsi di Adriano ai lavoratori. Sui fini e sulla proprietà dell’impresa: “Può l’impresa darsi dei fini che non siano identificabili nell’indice dei profitti? Non vi è qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione, anche nella vita di una fabbrica?”.

Sulla natura della fabbrica: “La fabbrica è fatta di conoscenza e di comprensione”. Sui diritti e doveri degli operai: “voi dovete conoscere dove la fabbrica va e perché va!” (1945).

Sui propri interrogativi imprenditoriali: “Creare un’impresa di tipo nuovo, al di là del socialismo e del capitalismo, giacché i tempi avvertono con urgenza che, nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna.” (24.12.1955).

E ancora, sulla proprietà: “La nostra azienda crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, dell’arte, della cultura. Crede che gli ideali della giustizia non possano essere estraniati dalla contesa ineliminabile tra capitale e lavoro. Proprietà e controllo dell’azienda debbono essere affidati ad una compartecipazione organica di tutte le formazioni della Comunità, rappresentative di Enti territoriali, sindacali e culturali. La forma probabilmente migliore è la Fondazione. La proprietà deve essere affidata ad un organismo misto. Stato, Regione, Comunità, Università, Lavoratori debbono avere una partecipazione congiunta e rispondente alla loro funzione sociale”.

IL Consiglio di Gestione è una grande novità in Italia ma è visto solo come preludio alla trasformazione dei rapporti di proprietà, terreno di incontro democratico tra la direzione e i lavoratori e la familiarizzazione di tutti i componenti della Comunità di fabbrica coi problemi e gli obiettivi comuni.

Si aggiungono la riduzione dell’orario di lavoro da 48 a 45 ore settimanali e la settimana corta nel 1956, a parità di salario; il Centro di Formazione meccanici, il servizio sanitario di fabbrica, il Regolamento assistenziale per le donne lavoratrici, gli asili di fabbrica, Il FSI Fondo di Solidarietà Interno, le Mense di fabbrica, l’Associazione delle Spille d’Oro; i Piani regolatori (1937-1950), lo Sviluppo integrato agricoltura/fabbrica.

Adriano scrive a Nesi, responsabile della finanza aziendale: “Non dimentichi che la finanza in questa azienda è al servizio della ricerca, della produzione e della distribuzione. Non si illuda mai che, pur trattando mezzi finanziari ingenti, essi siano mai al centro dei suoi compiti, né possano mai svolgere fini speculativi”.

Si passa a Roberto Olivetti, primogenito di Adriano, nato il 18 marzo del 1928. Quando Nesi lavorava in Rai come capo del servizio amministrativo, alla fine del 1957, conobbe in casa di amici Roberto, che gli propose di incontrare Adriano. Nesi lo ammirava, fu felice della proposta, che si realizzò rapidamente; ne seguì l’assunzione in Olivetti.

Poco dopo Adriano gli chiese di occuparsi della SGS Società Generale Semiconduttori, creata un anno prima da Olivetti e Telettra, che andava ristrutturata. Aveva sede ad Agrate Brianza, ove Nesi passò tutti i sabati successivi.

Roberto ascoltava, era desideroso di captare ogni forma culturale nuova, ogni segnale, anche deboli; era poco impositivo, preferiva innovare cercando il consenso. Ma dopo la morte di Adriano non era facile in Olivetti trovare il consenso su progetti innovativi.

Risponde nel 1962 per le rime con una dura lettera a Pietro Nenni che aveva accusato A. di essere stato un capitalista paternalista.


Fu membro del CdA, DG, VP, AD, ma mai Presidente della Olivetti, a causa del gruppo familiare, proprietario del 70% delle azioni ma diviso in sei rami. Alla morte di A., Giuseppe Pero era stato nominato DG. Persona di qualità eccezionale, fu però scelto come compromesso fra gli eredi. Disse Roberto che “fu una scelta fallimentare poiché significò distribuire cariche e funzioni ai diversi membri della famiglia, creando le premesse per discordie intra-familiari e crescente instabilità di governo”. Il giudizio era condiviso da Gianluigi Gabetti, nei primi anni ’60 direttore finanza della Olivetti Underwood, che ebbe a dichiarare che la concorrenza tra azionisti per il controllo dell’azienda fu molto dannosa per la Società.

In questo contesto Roberto ebbe vita difficile nei confronti del Gruppo di Intervento, che – sotto la guida di Visentini – nomina Aurelio Peccei (uomo Fiat) invece di Roberto, come era invece stato concordato. Visentini inoltre cede il pacchetto di controllo della SGS. A Roberto non resta che dimettersi polemicamente il 25.7.1964 da DG e membro del Comitato direttivo della Società. Le dimissioni vennero respinte ma la sua posizione si indebolì ulteriormente.

Roberto contestò a Visentini l’assenza di una strategia, la mancanza di decisioni di lungo periodo, l’incapacità di tenere unito il gruppo dirigente e di non avere neppure una politica del personale. “Non c’è un programma, né un gruppo di direzione che spinga in un’unica direzione”.

Agli inizi del 1967 Peccei viene esonerato dall’incarico di AD, al quale subentrano Roberto e Bruno Jarach: ancora una scelta di compromesso poiché il primo aveva una visione che guardava al futuro, il secondo era un conservatore. Tuttavia Roberto riesce a dar vita al gruppo di R&S, con Piergiorgio Perotto a capo.

Nel 1971 si dimisero tanto Roberto che Jarach, il primo restando VP. Si chiede Nesi: perché il Governo Moro-Colombo mandò Visentini, Vice Presidente dell’IRI, la più importante holding di Stato, a presidiare una grande impresa privata, senza darle alcun aiuto diretto o indiretto? E perché Visentini accettò?


E ancora: perché Visentini fu sempre ostile alle idee di Roberto? Una ostilità personale o suggerita dall’IRI stessa e dal Governo? O da forze straniere? Giuliana Gemelli, docente all’Università di Bologna e studiosa della storia Olivetti, così come anche Giorgio Fuà, fondatore dell’Ufficio Studi Olivetti, mettono in luce quanto Visentini tenesse Roberto ai margini della governance Olivetti e non avesse remore a tagliare il ramo verde dell’informatica; entrambi sottolineano inoltre quanto spesso il Gruppo di Intervento, presieduto da Visentini stesso, si scontrasse in malo modo con Roberto.

Quest’ultimo fu così costretto a coltivare l’elettronica fuori dal Canavese, in una sorta di seconda Olivetti, ritardando così la trasformazione dell’intera azienda. Il resto della famiglia non lo seguì; solo Dino, il più giovane degli zii (6° figlio di Camillo) e il più “americano” degli Olivetti guardava con favore alla elettronica, ma era per dar continuità alla produzione dei grandi calcolatori.

Morto Tchou nel 1961, pressato dal Gruppo di Intervento e dai problemi finanziari della Società, Roberto dovette adattarsi al disinvestimento dall’elettronica.

Elserino Piol, entrato in Olivetti nel 1952, divenuto Direttore Generale per le Strategie e lo Sviluppo nel 1984, racconta che Visentini nel 1968 lo chiamò per contestargli l’appoggio da lui fornito a Roberto sulla necessità di passare all’elettronica per consentire all’azienda di fare un salto di efficacia e produttività. Dice di avergli risposto che l’errore era casomai stato di non averlo fatto anni prima.

Fu infatti nel 1964 che Antonio Giolitti, Ministro del Bilancio e della Programmazione economica, scrisse un appunto ad Aldo Moro per sollecitare l’intervento di istituti bancari controllati dallo Stato affinché risolvessero la crisi finanziaria della Olivetti.

Nello stesso periodo peraltro Giuseppe Saragat sosteneva la “soluzione americana per la Olivetti” (l’uscita dalla elettronica), fatta propria anche da Carli e Colombo.


Nel 1974 Roberto, nella introduzione a Japan usage development Institute, verso una società dell’alta formazione: il caso giapponese, Ed. Comunità, scrive: la saggistica e la stampa tecnica hanno avuto il torto di non aver saputo chiarire alla classe politica e dirigente del Paese la portata delle implicazioni positive, sociali e politiche, dell’uso dell’elaboratore elettronico, associato alla tecnologia delle comunicazioni. Una società che utilizzi in larga serie l’informatica può diventare di per sé una società nuova e più avanzata.

Dal piccolo Centro di Ricerca creato da Roberto, nel 1965 nasce la “Perottina”, opera di Pier Giorgio Perotto e Mario Bellini, il primo desktop della storia.

Natale Capellaro (1902), da ragazzo operaio montatore della M1, divenuto direttore centrale negli anni ’60, inventore delle macchine meccaniche da calcolo più evolute e più redditizie, come la mitica Divisumma 24 e la Tetractys (1956), esaminò la P101 e così concluse: “caro Perotto, vedendo funzionare questa macchina, mi rendo conto che l’era della meccanica è finita”.

Già nel 1957, del resto, Roberto (come testimonia Gino Martinoli), aveva intuito che l’elettronica avrebbe rivoluzionato anche l’intero settore delle macchine per ufficio e che solo una grande impresa di livello europeo avrebbe potuto competere con le grandi multinazionali americane, ma inutilmente tentò di convincere Siemens, Bull, Philips a unirsi con Olivetti.

L’autore conclude la sua opera con Laura, la più giovane figlia di Adriano, nata nel 1950 e deceduta nel 2015. Essa scrisse a Nesi, poco prima di morire: “Adriano è divenuto un bene comune”. Dedicò molto del suo tempo alla memoria del padre, deceduto quando lei aveva nove anni. “Era un utopista concreto; le stesse pulsioni che l’hanno portato a realizzare la sua utopia sono state lo spirito portante di tutte le azioni della sua vita”.

Paolo Rebaudengo

Bologna, 16 aprile 2018

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