di Paolo Rebaudengo
Franco Debenedetti, autore di “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti, storia di un secolo di vita economica italiana” (Marsilio 2016) è un convinto assertore dell’invincibilità del mercato e un accanito detrattore della politica industriale. Lo scrive in quarta di copertina: “Per indicarla a chi non la riconosce, per convincere chi ancora ci credesse, per confinarla nella sua riserva. Per questo ho scritto contro la politica industriale”.
Nel risvolto di copertina si spiega ancora meglio. “Protezionismo, autarchia, keynesismo, programmazione, strategie, italianità: tutte variazioni su uno stesso tema, l’idea che lo Stato, per governare l’economia, debba intervenire e sappia farlo imboccando le strade giuste. E’ la politica industriale: lo Stato si sostituisce al mercato e sceglie i vincitori della gara concorrenziale. Salvo poi, quando l’insana idea non ha successo, dover correre ai ripari salvando i perdenti”.
Un breve capitolo intitolato “Fallimenti del capitale” è dedicato all’Olivetti, di cui è stato amministratore delegato al 1978 al 1992, e a Telecom Italia. Ammette che alla morte di Adriano “l’azienda aveva persone e strutture di prim’ordine, il figlio Roberto determinato a proseguire sulla strada delle nuove tecnologie”. Aggiunge che il gruppo d’intervento, organizzato da Mediobanca per salvare l’azienda nella crisi del 1974 (sic), l’aveva giudicata strutturalmente solida ma condivide la sua decisione di farla uscire dal mercato dell’elettronica, “poiché sarebbero stati necessari investimenti che nessuna azienda italiana avrebbe potuto affrontare”.
“Quando entrai in Olivetti se ne parlava ancora come di un tremendo errore, ma cosa fa pensare che l’Olivetti ce l’avrebbe fatta a mantener il primato tecnologico e ad affermarsi come produttore di grandi elaboratori? In Europa non c’è riuscito nessuno” e ancora: “prima di affermare che la decisione del gruppo d’intervento ha fatto perdere all’Italia il primato nell’informatica, bisogna indicare che cosa di superiore avesse l’Olivetti per sopravvivere dove i più bei nomi della tecnologia europea finirono uno dopo l’altro per fallire”.
Dando per scontato che alla domanda non ci sia una risposta, conclude: “si deve riconoscere che quella decisione abbia evitato all’azienda e al Paese di svenarsi per una battaglia in cui i combattenti caddero tutti.”
“L’Olivetti riuscì a non finire nell’IRI” scrive l’autore. E’ difficile, oggi, essere certi che la storia olivettiana sarebbe stata peggiore.
Franco Debenedetti, prima di approdare in Olivetti aveva lavorato alla Fiat per due anni. “Due modelli industriali che più diversi non si potevano immaginare”.
“Tuttavia da parte del gruppo d’intervento non fu imposta una diversa visione culturale, sociale e industriale”. “Il mito di Adriano e della sua visione della fabbrica nella comunità restò intatto, le critiche vennero piuttosto dal presidente Bruno Visentini, secondo il quale il solo obiettivo doveva essere il profitto e gli scopi sociali dovevano essere tenuti strettamente separati da quelli economici”. Nessun cenno da parte dell’autore a come uno sparuto gruppo di ricercatori sia riuscito a far sopravvivere e a produrre prodotti di successo nel mercato dell’elettronica.
Sostiene che fu proprio la vendita della divisione elettronica che produceva l’Elea a far reagire l’azienda, spingendola verso la vincente informatica distribuita, come se l’informatica distribuita sarebbe potuta nascere senza quegli eroici ricercatori che resistettero al diktat dell’abbandono dell’elettronica.
L’Olivetti fu poi ceduta a suo fratello Carlo, con uno “shock assai più radicale” per l’azienda. L’entrata di De Benedetti che acquisisce il controllo dell’Olivetti comprando il quattordici per cento del capitale della Società per soli 17 milioni di dollari è seguita dalla decisione della Fiat di vendere immediatamente la sua quota.
“Valletta aveva usato il machete ma era restato fuori dalla gestione; De Benedetti, azionista e gestore in prima persona, lavora dall’interno con il bisturi, o, se vogliano, con un manageriale rasoio di Occam”. Aggiunge l’autore che “Valletta aveva attaccato la strategia dell’Olivetti ma non la sua cultura, mentre De Benedetti deve cambiare la struttura operativa e il modo di lavorare”. Egli avrebbe stretto “un patto di cui non c’è lo scritto” (con i sindacati?) fondato su “mano libera nel controllo dei costi, sul taglio delle baronie e delle sacche di rendita nell’organizzazione commerciale, razionalizzazione delle strutture produttive, chiudendo e delocalizzando; in cambio garanzia di continuità nelle relazioni interne ed esterne (personale, organizzazione del lavoro, servizi sociali, relazioni sindacali; corporate identity, design, pubblicità, relazioni politiche)”. Renzo Zorzi avrebbe fatto da “trait-d’union tra il periodo adrianeo e quello olivettiano”.
L’autore considera dunque come “periodo adrianeo” tutti gli anni che vanno sino all’arrivo di Carlo De Benedetti: lo fa per segnare il forte cambiamento derivante dall’arrivo del fratello ma è un’evidente forzatura, poiché gli anni che separano la morte di Adriano dall’ingresso dell’Ingegnere, con l’arrivo del gruppo d’intervento e la presidenza Visentini, pur nell’apparente continuità culturale, segnano cambiamenti significativi nella strategia aziendale e manageriale.
Sino alla primavera del 1964, con Roberto Olivetti amministratore delegato della DEO Divisione Elettronica Olivetti, la continuità era assicurata, ma la prima iniziativa dei nuovi azionisti del Gruppo d’intervento fu proprio il disinvestimento nell’elettronica. La DEO è ceduta alla General Electric. Piergiorgio Perotto, che ne faceva parte, per completare il primo personal computer del pianeta dovette fare la parte del “progettista riottoso”, rendersi poco gradito alla GE e restare così in Olivetti con due soli collaboratori.
Un piccolissimo nucleo che costituirà la “resistenza” interna a presidio di una non facile e precaria continuità interna nella progettazione di prodotti elettronici.
Scrive Franco Debenedetti (col cognome tutto attaccato a differenza di quello del fratello): “La nuova Olivetti di De Benedetti è vivace, spregiudicata, aggressiva” e “non perde il patrimonio di modello industriale e culturale dell’Olivetti di Adriano nel mondo grazie alla continuità voluta dall’Ingegnere nelle politiche del personale e dell’immagine, ma quasi nessuno era disposto a riconoscere che l’Olivetti non aveva molti punti di forza”. Quest’ultima affermazione è un suo chiodo fisso che percorre tutto il suo scritto: precostituisce la difesa sull’intero operato del fratello.
“C’era la ET, la macchina per scrivere elettronica e l’M24, il computer europeo di maggior successo nei primi anni Ottanta”. “Ma sapevamo quante più risorse la Apple stava mettendo e c’erano (anche) Commodore, IBM e i soliti giapponesi”.
Dunque, si sarebbe trattato di investire…… Infatti l’autore aggiunge: “A Torino lavoravamo alla voice recognition, ma con risorse inadeguate”. “Nei sistemi, il treno dei minicomputer l’aveva preso Digital”. Dimentica l’autore di raccontare come nei primi anni ’80, De Benedetti avesse compiuto un viaggio nella Silicon Valley con un team numeroso di progettisti italiani dell’Olivetti e, per iniziativa di Elserino Piol, avesse incontrato il giovane Steve Jobs. Per poi confidare anni dopo, in un’intervista: «Steve Jobs mi chiese se ero disposto a mettere un milione di dollari di allora per avere il 20% dell’azienda. Ma io dissi a Piol: non stiamo a perdere tempo con questi ragazzi, abbiamo cose più serie da fare». Quell’investimento qualche tempo dopo sarebbe valso diverse decine di miliardi di dollari e la storia dell’Olivetti e dell’industria elettronica italiana sarebbe quasi certamente stata del tutto diversa.
Anche la grande occasione che si era presentata con il personal computer M24 che per almeno due anni fu leader di mercato per prestazioni non fu colta, rimanendo un episodio isolato. Olivetti perse la leadership nei prodotti per ufficio, senza riuscire ad acquisire una posizione competitiva nell’offerta di soluzioni informatiche.
Nel blog sulla tecnologia www.appuntidigitali.it si legge: “Proprio nella prima metà degli anni ’80, dal genio della R&D Olivetti nacque il glorioso e vendutissimo M24, primo PC totalmente IBM compatibile in un mercato popolato di quasi-compatibili; un computer che rappresenta secondo molti l’ultima pietra miliare che l’industria informatica italiana sia riuscita a imporre in un settore di lì in poi monopolizzato dai produttori americani ed estremo orientali. Complessivamente l’M24 era in grado di lasciare nella polvere la concorrenza sul fronte prestazionale (si parla di prestazioni circa doppie rispetto all’IBM XT), restando nel contempo capace di soddisfare le esigenze del segmento corporate in termini di compatibilità con le applicazioni e gli OS più diffusi: oltre al “classico” MS-DOS 2.11 era infatti supportato il CP/M 86, il semi-sconosciuto UCSD P-System basato sul Pascal, e il PCOS di Olivetti.
Tutto questo in un’epoca in cui la rivoluzione informatica era in pieno corso, le aziende italiane iniziavano a sentire il bisogno di strumenti più potenti per la gestione dei processi interni e lo stato garantiva, complici anche delle pratiche di appalto non proprio trasparenti, una forte domanda interna. …. Una partnership con AT&T ne permise l’esportazione nel più evoluto mercato statunitense – sotto il nome di AT&T PC-6300- ove il computer vendette bene, al punto da rendere per qualche tempo la Olivetti secondo produttore al mondo di PC. Forse seduta sugli allori degli appalti facili, di certo mal gestita da un management politicizzato e inadatto alla competizione internazionale, ai tempi dell’M24 la Olivetti era tuttavia già uscita dal suo periodo d’oro.”
Non giovò poi alla Società il tentativo dell’Ingegnere di scalare, nel 1988, la Sgb (Société Générale de Belgique), prestigioso gigantesco conglomerato fondato nel 1822. La Sgb possedeva un’importante parte dell’economia belga e sembrava una preda facile. Lo scontro di Borsa si concluse tuttavia con la sconfitta di De Benedetti che impiegherà tre anni a disincagliare l’investimento.
Franco Debenedetti non ne parla.
Dopo aver scritto che l’Olivetti “non aveva molti punti di forza”, osserva nella pagina successiva che “il problema non era tanto ciò che non aveva ma quello che aveva. La maledizione delle fabbriche da riempire e degli operai da occupare, la dimensione di un conto economico che quadrava solo con fatturati importanti……Era più il tempo dedicato a sostenere l’esistente di quello speso a pensare ai prodotti futuri. “Perché l’Olivetti avrebbe dovuto farcela? Aveva il modello di business sbagliato nel Paese più sbagliato di un continente sbagliato, quello in cui c’erano maggiori resistenze a lasciare operare la distruzione creatrice”. L’esito finale farebbe pensare il contrario.
A troncare ogni obiezione, aggiunge l’autore che “non era questione di soldi: quando si trattò di utilizzare i 660 miliardi (di lire) del contratto di programma, né Olivetti Systems (di cui egli stesso dal 1989 fu Presidente) né Olivetti Office Products riuscirono a definire progetti di ricerca che conducessero a prodotti con una ragionevole prospettiva di aprire nuovi spazi di mercato e dar lavoro ai nuovi assunti.”
Poca fortuna ebbero poi le alleanze con Saint-Gobain nel 1980 e AT&T nel dicembre del 1983. La prima fallì, secondo l’autore, perché la Saint-Gobain si era data un obiettivo di piano (entro il quinquennio raggiungere una quota del 20% delle attività dell’informatica), “operazione destinata a fallire per le ragioni per cui falliscono i progetti di politica industriale”. La AT&T era la più grande compagnia telefonica del mondo: doveva lanciare l’azienda di Ivrea nel mercato americano e mondiale e darle accesso ai Bell Laboratories, il centro di ricerche del colosso texano che rappresentava la frontiera dell’innovazione all’incrocio tra computer e telefono. “Si mostrò tuttavia incapace di vendere un prodotto come il personal computer (oltre mezzo milione di PC Olivetti acquistati dalla AT&T restarono nei magazzini)”.
La versione americana è un po’ diversa: nei primi anni la AT&T vendette molti personal computer dell’Olivetti (200.000 pezzi nel solo 1986), mentre quest’ultima riusciva a piazzare pochissimi prodotti della AT&T.
La società americana cominciò anche a recriminare sugli scarsi investimenti dell’Olivetti nella ricerca e nell’innovazione dei prodotti, tanto da non riuscire più a vendere i prodotti italiani in un mercato che richiedeva un’evoluzione continua. La delusione reciproca, completata dalla difficoltà di mettere a frutto l’alleanza costruendo nuovi prodotti, aprì sin dal 1987 la strada al divorzio, che si consumò definitivamente nel 1989. Annota l’autore: “la AT&T non si rendeva conto che le economie di scala stavano svanendo e i venture capital andavano a cercare di garage in garage”. Appunto quei garage in uno dei quali lavorava Steve Jobs….
Scrive però che “anche gli apporti tecnologici di start-up non potevano avere successo, perché rispetto ai venture capital, che chiedono solo che l’azienda abbia successo, porre l’ulteriore condizione di offrire anche sinergie con Olivetti costituiva uno svantaggio nella selezione del target e un vincolo nella gestione dell’investimento”.
E neppure le iniziative di Vittorio Cassoni “potevano essere risolutive”. Cassoni, laureato al Politecnico di Milano, era conosciuto comeesperto strategico di marketing della tecnologia informatica e in particolare dei computer. Cominciò la sua carriera nel 1967 con la IBM a Vimercate. Fu chiamato nel 1980 da Carlo De Benedetti in Olivetti, ove rimase sino al 1992, in posizioni di crescente responsabilità, sino a essere nominato secondo amministratore delegato. Dal 1986 al 1988 venne “prestato” alla AT&T, ove assunse la posizione di presidente esecutivo della Data Systems Group, la Divisione informatica della AT&T a Morristown nel New Jersey. l
Riuscì a ridurre drasticamente le perdite della AT&T nel settore dei computer e a darle credibilità nel mercato dell’informatica anche attraverso nuove alleanze strategiche. Uscì dall’Olivetti, come Franco Debenedetti, nel 1992. Entrò subito dopo alla Xerox come vice presidente esecutivo, morendo pochi mesi dopo a soli 49 anni. Le iniziative di Cassoni di cui parla con delusione l’autore sono intraprese congiuntamente con Carlo De Benedetti nel 1989 con l’obiettivo di razionalizzare e dare maggiore efficienza alla gestione della grande quantità di prodotti e di tecnologie.
Fu completamente rivoluzionata la prima linea del management con la creazione di quattro nuove e indipendenti società, in ordine di importanza per fatturato: Olivetti Systems and Networks (produzione e marketing di tutti i personal e minicomputer); Olivetti Office (macchine per scrivere, calcolatrici, fotocopiatrici ecc.); Olivetti Information Services (software, reti personalizzate sulle esigenze dei clienti, progetti informatici); Olivetti Technologies Group, costituito da ventiquattro piccole società operanti nel campo dell’hardware dei computer e dello sviluppo e gestione di progetti industriali su larga scala.
La critica di Franco Debenedetti è focalizzata sull’OIS (Olivetti Information Services) di cui nel 1989 era diventato Presidente. Eppure nell’autobiografia pubblicata sul sito www.francodebenedetti.it si legge: “Con la riforma organizzativa del 1989 divento Presidente di Olivetti Information Services, con la missione di realizzare il più grande gruppo italiano di servizi informatici”.
Debenedetti scrive che OIS “nasceva con identità ambigua: all’esterno doveva convincere il mercato che una società di proprietà Olivetti era hardware independent nel fornire consulenza organizzativa e servizi software; e all’interno doveva convincere l’altra Olivetti che compito di OIS non era favorire la vendita di hardware Olivetti”. “Per questa ragione”, aggiunge, “nel 1990 lasciai Olivetti: vi avevo lavorato per quattordici anni” (in realtà lascerà l’Olivetti nel 1992, come si legge anche nel risvolto di copertina).
Ribadisce: “Olivetti non ce la poteva fare: neppure il successo di Omnitel vale a cambiare il giudizio, essendo “un’iniziativa individuata con intuizione anticipatrice ……che poco o nulla ha che vedere con le attività, le competenze, il retaggio storico dell’Olivetti.” Insomma “nasce per partogenesi non dall’azienda Olivetti ma dal capitale Olivetti”. Conclude questa parte del capitolo “Fallimenti del capitale” dedicato all’Olivetti con la considerazione, piuttosto discutibile, che “le due corde che legavano l’Olivetti debenedettiana all’eredità eporedise, relazioni interne e relazioni esterne, avevano retto anche quest’ultimo passaggio”.
Il racconto di Franco Debenedetti finisce qui. Ma non la storia della Olivetti. Cassoni fu sostituito nel settembre 1992 da Corrado Passera (già Direttore Generale nella CIR di Carlo De Benedetti) come co-Amministratore Delegato a fianco dell’Ingegnere, che ricopriva anche la carica di Presidente. Lascerà nell’aprile del 1996. Sembra dover subentrare Francesco Caio (oggi AD di Poste Italiane), che aveva lavorato in Olivetti dal 1982 al 1984 come product manager prima e business planner dopo. Tornò nel 1992 per svolgere una revisione aziendale, dalla quale emerse che il settore delle TLC era quello con le maggiori possibilità di crescita.
Al tema delle TLC si era peraltro applicato sin dal 1988 Elserino Piol, responsabile per le Strategie e lo Sviluppo dell’Olivetti, ricevendo l’incarico operativo di realizzare iniziative nel campo delle TLC. Nel 1993 nacque così Omnitel come primo operatore privato nella telefonia mobile e Caio ne diventò amministratore delegato. Nel 1995 nascerà Infostrada (telefonia fissa).
Invece di Caio Carlo De Benedetti chiama Roberto Colaninno che, poco dopo, assume tutte le deleghe in qualità di Amministratore delegato unico. Siamo nel pieno della peggiore crisi finanziaria e industriale della storia della Società di Ivrea. Su pressione degli azionisti stranieri che reclamavano un cambiamento radicale Carlo De Benedetti alla fine di agosto dello stesso anno si dimette anche da Presidente, pur mantenendo il ruolo di importante azionista attraverso una quota del 14,5% del capitale della Società e ottenendo quello di Presidente onorario sino al 1999.
Colaninno trasforma l’Olivetti in una holding di telecomunicazioni, con quote di controllo in Omnitel e Infostrada e con partecipazioni di minoranza nel settore dell’ICT. Nel settembre 1998 Colaninno vende le attività della “vecchia Olivetti”: con Omnitel l’azienda di Ivrea era diventata una società di telecomunicazioni. Omnitel sarà venduta per quattordicimila miliardi di lire ai tedeschi della Mannesmann, che a sua volta la cederà alla Vodafone.
Il 20 febbraio 1999 Colaninno lancia un’OPA da 102 mila miliardi di lire sulla totalità delle azioni di Telecom Italia, tramite la controllata Tecnost. La vendita di Omnitel e Infostrada fornirà parte delle risorse.
La seconda parte del capitolo sui “fallimenti del capitale” del volume di Franco Debenedetti è dedicata appunto al “dissesto della telefonia”.
Per la Olivetti gli anni che vanno dal 1992 al 1998 furono cruciali ma il libro di Debenedetti non ne parla, salvo poche righe a proposito di Colaninno. Furono anni neri: nel 1995 su un fatturato di 9.000 miliardi di lire il bilancio presenta una perdita di 1.500 miliardi. Nel 1996 le azioni scendono da ventunmila lire a seicento, con una perdita di patrimonializzazione di oltre quindicimila miliardi di lire. Ulteriori ristrutturazioni furono tentate, con massicce riduzioni di personale, tagliato di oltre la metà: da 53.000 addetti del 1990 si scese nel 1996 a 26.300 e, con la cessione delle attività della “vecchia Olivetti”, si assottigliò a poche migliaia di addetti. (nel 1997 le attività relative ai personal computer sono cedute alla Piedmont, che fallirà poco dopo; nel 1998 la Olivetti Systems and Networks è ceduta a Wang Global che la venderà a Getronics e così via). Nel 2004 i dipendenti erano 1.800.
I guai giudiziari di Carlo De Benedetti nei terribili anni ‘90 non avevano giovato, anche se alla fine fu prosciolto da tutte le accuse: nel 1992 fu imputato di concorso nella bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano avvenuta dieci anni prima e condannato a sei anni e quattro mesi di prigione, ridotti in appello, nel 1996, a quattro anni e sei mesi, per poi uscire del tutto indenne con la sentenza della Cassazione nel 1998. Altri problemi arrivarono nel 1993 quando l’Olivetti fu indagata nel corso delle inchieste su “tangentopoli”. L’Ingegnere si presentò spontaneamente e ammise di aver pagato tangenti per dieci miliardi di lire ai partiti di governo per ottenere commesse dalle Poste Italiane. Fu arrestato ma liberato nella stessa giornata. Anche in quest’occasione fu poi assolto da alcune accuse e prescritto per le altre.
Il ruolo di De Benedetti nell’Olivetti resta controverso. Da un lato, come scrivono Davide Cadeddu e Giulio Sapelli nel volume Adriano Olivetti lo Spirito nell’impresa (Il Margine, 2007), “quando De Benedetti nel 1978 diventa presidente la Olivetti è un’azienda dal nome sì glorioso, ma molto indebitata e dal futuro incerto. Egli pone le basi per un nuovo periodo di sviluppo, basato sulla produzione di personal computer e sull’ampliamento ulteriore dei prodotti, che vede aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. Soprattutto quello dei registratori di cassa sarà un affare d’oro, quando nel 1985 Bruno Visentini, ministro delle Finanze del governo Craxi, obbliga per legge tutti i commercianti al dettaglio al loro utilizzo con emissione dello scontrino fiscale. Indubbiamente, era una misura indispensabile per combattere l’evasione. Il fatto che lo stesso Visentini fosse stato presidente della Olivetti diede però luogo a fiere polemiche, anche se oggi di quel conflitto di interessi e di quel favore del governo Craxi a De Benedetti si è persa memoria quasi del tutto”.
Gli autori sono però molto critici sul suo operato da altri punti di vista. “Quando nella Olivetti vi giunse Carlo De Benedetti, nulla dei valori olivettiani lasciò nell’azienda, ma tutto di essi disseminò fuori di sé, come per una sorta di hegeliana astuzia della ragione”. E ancora “L’arrivo di Carlo De Benedetti e la sua presa di possesso degli uffici: un esempio di mancanza di stile che rimarrà memorabile nelle storie del saper vivere internazionale, con l’ondata di terrore aziendale che ne seguì e con il contagio di opportunismo che determinò, dissipando repentinamente il patrimonio di lealtà organizzativa costruito in decenni e trasformandolo in vuoto di fedeltà zelante di ossequio.
E ciò avvenne con una rapidità impressionante dopo il licenziamento di decine di dirigenti, a confortare l’ipotesi –già espressa tra gli altri da Ottorino Beltrami nella sua testimonianza – che molto rapidamente, cioè immediatamente dopo la morte di Adriano nel 1960, con il sopraggiungere del gruppo di controllo diretto da Bruno Visentini, di quei valori in azienda s’iniziò la svendita. Sotto questo profilo, l’avvento di Carlo De Benedetti non fu altro che il definitivo suggello di un processo di dilapidazione avviato già da tempo.”
La storia Olivetti va avanti: nel 2008 arriva la valorosa Patrizia Greco in qualità di AD, con lei la “vecchia” Olivetti rientra nel mercato dei PC con Notebook e Netbook, software e servizi IT.
Pochi anni dopo Greco diventa Presidente e nel ruolo di AD arriva nel febbraio 2013 Cinzia Sternini che debutta all’evento UbiFrance-Alu Enterprise organizzato all’ambasciata di Francia presso la Santa Sede, nella Villa Paolina Bonaparte, in collaborazione con Alcatel Lucent Enterprise. Cinzia Sternini, laureata in ingegneria elettronica con lode a Bologna, e formata anche all’Insead, ha alle spalle un lungo percorso nella divisione Network di Telecom Italia e, sempre in Telecom Italia, è stata Responsabile di International Purchasing and Strategic Vendors e di Innovative Technologies Purchasing. Nel febbraio 2015 è richiamata in Telecom Italia come responsabile Development Projects per lo sviluppo della banda ultra-larga e delle reti digitali, al suo posto arriva Riccardo Delleani.
In una intervista alla Sentinella del Canavese Delleani sostiene che per Olivetti sta iniziando la quarta vita, dopo quella meccanica, elettronica, informatica; dice di voler “ripartire dal territorio e di puntare al globale”. “Innovazione che riprende la storia e aiuta a immaginare il futuro”.
Una buona sintesi di come vanno le cose nel 2015 la dà La Sentinella del Canavese che riporta le considerazioni di Delleani: “Premette, Delleani, di aver voluto conoscerne e studiare la storia e ammette, allargando le braccia, di aver toccato con mano la sensibilità della gente del Canavese, chiusa, diffidente e pronta a difendere i propri valori, ma anche disponibile ad ascoltare. Delleani, tanto per sgombrare il campo, è un uomo Telecom Italia, azienda che lo vede tra le proprie fila fin dalla fine degli anni Ottanta. Ed è a lui che Telecom Italia ha chiesto di portare avanti un piano industriale per una nuova Olivetti, completamente trasformata e con l’obiettivo – ambiziosissimo – di diventare il polo digitale e di innovazione del gruppo Telecom tenendo dentro la propria storia e tornando a immaginare il futuro. Delleani dice di crederci ma, soprattutto, dice di crederci da Ivrea e da quell’ufficio al sesto piano di palazzo uffici, forse oggi con l’aria un po’ d’antan, ma che ha lasciata intatta la possibilità di abbracciare con un solo sguardo, dall’immensa parete a vista, tutto il Canavese.
Gli obiettivi economici da raggiungere sono evidenti (da quando Olivetti è di Telecom Italia non ha mai chiuso un anno il bilancio in attivo) ma Delleani, rispetto agli amministratori delegati che lo hanno preceduto in questi ultimi anni, intende rilanciare un’apertura dell’azienda al territorio nel solco di una grande storia e tradizione, ma anche con qualcosa di più.
Olivetti è, infatti, seduta al tavolo della commissione economica del Piano strategico dell’Eporediese: «Con il sindaco Carlo Della Pepa – spiega – e i rappresentanti degli enti locali della Regione e della Città metropolitana c’era stato un incontro a Roma, quest’estate, con l’amministratore delegato di Telecom Italia Marco Patuano. Noi siamo a fianco del territorio per quanto riguarda le infrastrutture perché una linea ferroviaria efficiente per Torino è importante anche per i lavoratori della nostra azienda. E siamo molto interessati a supportare l’ideazione e a essere parte attiva nella costituzione di un acceleratore di start up legato al mondo dell’innovazione».
Proprio sulle start up, il territorio e la nuova Olivetti, Delleani ci tiene a raccontare una storia recente, che riguarda la nuova stampante S2 3D, che sta entrando sul mercato in queste settimane dopo aver ottenuto la certificazione Ce. «È un progetto che abbiamo sviluppato in cento giorni – racconta -. È questo il tempo che ci abbiamo messo per fare scouting tra giovani start up (è stata scelta la Gmax di Prato), acquisire il progetto, rivederlo secondo i canoni della Olivetti, identificare il fornitore e impostare la produzione qui, in Canavese, a Ivrea (alla Essebi, in via Alessandria a San Bernardo, ndr)». La stampante 3D è stata presentata in occasione dei settant’anni di Confindustria Canavese a Ivrea e si sta affacciando in queste settimane sul mercato. I primi riscontri? «Positivi, anche all’estero».
L’ad Olivetti, però, utilizza la storia della stampante 3D per spiegare il futuro: «Noi vogliamo essere protagonisti della trasformazione culturale portata dalla tecnologia. La tecnologia genera entusiasmo e la nostra capacità è immaginare il domani, ciò che sarà fra cinque anni. Proviamo a pensare, dal punto di vista tecnologico, come è cambiata la nostra vita quotidiana: cinque anni fa, ad esempio, nessuno di noi utilizzava whatsapp». La stampante 3D, in questo senso, è un simbolo: utilizza le potenzialità della scheda Arduino (altra idea made in Ivrea) ed è dedicata al mondo della manifattura.
«Penso a un mondo dove si vede un oggetto in un negozio, come può essere un paio di occhiali o si ha bisogno di un pezzo di carrozzeria per la propria auto – dice per spiegare le potenzialità dello strumento – e nel giro di qualche ora questo viene stampato e dato al cliente». Ma non è solo questo.
Più volte, in questi mesi, è stato detto e scritto che l’azienda avrebbe puntato sull’“internet delle cose”. Già, ma cosa è? «È la possibilità di pensare agli usi degli oggetti in modo diverso. Penso ad esempio, al registratore di cassa che, oltre alle sue funzioni, possa collegare altre attività. Penso alla stampante, che noi abbiamo sempre concepito come oggetto con una sua assistenza e che invece, in un cambio di prospettiva, si vede come la possibilità di avere un archivio digitalizzato, dematerializzato e di avere la stampa solo di ciò che serve».
Il 2015 è quindi cominciato con la ristrutturazione della Olivetti con l’annuncio, nel maggio scorso, di 330 esuberi ed è terminato con la chiusura della vertenza sindacale (senza la Fiom) e la fusione per incorporazione di Tids, Telecom Italia Digital Solutions. «Abbiamo deciso di procedere in questo modo perché abbiamo attenzione nei confronti delle persone – sottolinea -. C’è stata una soluzione per tutti, nessuno è stato lasciato a casa».
Dal primo gennaio 2016 , quindi, la nuova Olivetti è operativa e con nuovi obiettivi. Entro breve tutti i lavoratori Olivetti saranno tutti concentrati a palazzo uffici e lasceranno, quindi, la Casa blu dell’ex Centro studi in via Monte Navale. Delleani ci crede, nel nuovo piano, e sottolinea di aver raccontato solo ciò di cui è assolutamente certo: «Entro il 2016 porteremo l’Ebitda (il margine operativo lordo) in positivo. Nel 2014 è stato negativo per 29 milioni di euro».
L’obiettivo del 2016 è quello di integrare le varie realtà e non ci sono preclusioni a nuove acquisizioni finalizzate ad aggiungere potenzialità innovative. Del gruppo Olivetti, fanno parte anche altre quattro aziende, Trust Techologies, che si occupa della gestione dell’identità digitale, Telsy di Torino, che si occupa di servizi di security e di sistemi crittografati, Alfabook, azienda sempre di Torino che si occupa di soluzioni tecnologiche per l’editoria digitale con particolare riferimento alla scuola e Way (Where are you), acquisita nel dicembre scorso, altra azienda torinese che si occupa della gestione di flotte”.
Consultando il sito web di Olivetti alla fine di settembre 2016 si legge che nel 2013 aveva fatturato 265 milioni di euro con 682 dipendenti mentre al 31.12. 2015 ha fatturato 229 milioni di euro con 560 dipendenti e che, “grazie ad un’ampia offerta di prodotti HW e SW all’avanguardia, svolge l’attività di Solution Provider offrendo soluzioni in grado di automatizzare processi e attività aziendali per le PMI, le grandi aziende e i mercati verticali. Olivetti vanta una presenza commerciale in oltre 50 paesi al mondo, prevalentemente in Europa, nel Far East e in America Latina.”
Gli eventi più recenti per Olivetti sono il nuovo taglio di personale, la fusione con Telecom Italia Digital Solutions -TIDS e la nomina, a gennaio 2016, alla Presidenza, del dottor Federico Maurizio d’Andrea, laureato in economia e in giurisprudenza, una importante attività nella Guardia di Finanza da cui si congeda col grado di colonnello per entrare, nel 2007 in Telecom Italia.
Intervistato poco dopo la nomina in Olivetti da Denis Trivellato per il sito web dell’Università Bicocca di Milano, d’Andrea è piuttosto chiaro (per il testo integrale si veda http://ibicocca.it/2016/05/09/federico-maurizio-dandrea-la-forza-della-volonta-la-differenza/ inizia così: “quando si parla di Olivetti non bisogna commettere un errore, essere dei nostalgici. Il mondo di oggi è un mondo diverso di quello di Adriano Olivetti. Olivetti ha fatto la storia industriale di questo paese. Oggi, la Olivetti, del gruppo Telecom, è fortemente orientata verso le soluzioni digitali, non perdendo lo spirito imprenditoriale, ovviamente adattandole a quello che sono le esigenze del momento. Ma con una caratteristica che probabilmente ci accomuna con quella di Adriano Olivetti: quella di ipotizzare e immaginare sempre il futuro.”
Chiede l’intervistatore: “facendo un salto nel grandioso passato della Olivetti scopriamo che nel 1954, prima di Apple, prima di Microsoft, e prima ancora di tante altre, ci fu il primo Olivetti Store, nella quinta avenue di New York, dove lo stesso Adriano Olivetti tenne un famoso discorso, quello sulla sicurezza, la libertà e il benessere non solo per la fabbrica ma anche per i lavoratori. Oggi siamo nel 2016. Possiamo pensare o ipotizzare che l’Olivetti possa di nuovo riproporre un evento del genere o a riportarsi a quegli alti livelli come allora?”
Risponde d’Andrea: “Questo è un sogno. Adriano Olivetti era Adriano Olivetti. Quello che posso dire con certezza è che l’attenzione nei confronti delle persone, l’attenzione nei confronti dei clienti, l’attenzione nei confronti dei prodotti, l’attenzione nei confronti di tutto ciò che quotidianamente noi svolgiamo si richiama molto alla storia di Olivetti, e alla storia anche del gruppo Telecom. Dire che le persone sono davvero al centro non è una frase fatta, non è frase rituale, è invece lo spirito che anima la nostra attività quotidiana consapevoli del fatto che il 2016 non è certamente il 1950. L’epoca è completamente diversa, e noi ci confrontiamo con mondi e situazioni completamente differenti. Non è ipotizzabile un paragone con Apple o con Google”.
Ci si prova? Insiste l’intervistatore.
“Beh, certamente quelli sono dei punti di riferimento. Probabilmente da questo punto di vista se potessi dire fino in fondo il mio pensiero “il treno si è perso all’epoca” ed è difficile poi che si possa riprendere. Bisogna prendere un altro mezzo…”.
Bologna, 29 settembre 2016