Coordinatore scientifico di Olivettiana, Filosofo, in Olivetti dal 1969 al 1994 presso la Direzione Relazioni Culturali.

Questo testo di Emilio Renzi è tratto dal volume Storia e storie delle risorse umane in Olivetti, a cura di Michele La Rosa, Paolo Rebaudengo e Chiara Ricciardelli, FrancoAngeli, collana Sociologis del lavoro, Milano, 2004 

Via Camperio a Milano è una via stretta, apparentemente rettilinea, che per
quasi tutte le ore del giorno conserva un aspetto quieto, quasi un appartato
angolo di provincia. Ne percorrono gli stretti marciapiedi, facendo attenzione
alle rade automobili con le orecchie più che con gli occhi, i proprietari e clienti
dei pochi ma scelti negozi (librerie di bibliofilia e modernariato, antiquari), i
baristi dei caffè che dopo aver servito i cappuccini del mattino si danno a
preparare alzate di panini dai nomi improbabili, il personale e gli avventori di
ristoranti e rinomate trattorie, infine e in maggior numero le impiegate e gli
impiegati dei molti uffici della zona.

Via Camperio nasce tra largo Cairoli e via Dante e sbuca in via Meravigli
quando questa si è lasciata alle spalle lo slargo del Cordusio per indirizzarsi
verso corso Magenta. Strada di arrocco, non saprei dire se sopravvissuta, o
così voluta, dall’urbanistica che a fine Ottocento edificò ex novo via Dante e
ridisegnò completamente la zona incardinandola su due centri di potere della
Milano che borghesemente saliva verso le sue sorti di capitale, come allora
si diceva, morale (economica, senza dubbio, e produttiva): la Camera di
Commercio e la Borsa.

Manfredo Camperio cui la via fu intitolata era un geografo dell’Ottocento che, come trascrivo dall’Enciclopedia Treccani, propugnò l’opportunità di fare di Brindisi la testa di linea
per la valigia indiana e per le comunicazioni con l’Oriente asiatico;
I palazzotti di onorata ma non ricca fattura che ne compongono uno dei lati
hanno alle spalle un intrico di stradine dal tracciato ingannevole: via Porlezza,
via S. Giovanni sul Muro. Dai loro portoni di legno massiccio è possibile
occhieggiare verso cortili neoclassici, adornati di verde da città.
Dall’altro lato, lungo, opposto marciapiede, le costruzioni sono il retro di via
Dante, oppure sono di più recente, postbellica edificazione.

All’esterno del numero 3 di via Camperio una targa avvisava che stavamo noi della
Direzione Relazioni Culturali, Disegno industriale e Pubblicità della Ing. C.
Olivetti & C., S,p.A., Ivrea (Torino); ma era possibile accedere alla Direzione anche dal
civico 5. La lunga e veridica dizione ufficiale della Direzione veniva da tutti
abbreviata in Pubblicità- e io resterò fedele a quel modo di dire, per quanto
sommario.
Costruito secondo ciò che nei tardi anni Cinquanta in Italia si intendeva con
stile moderno, il nostro palazzo aveva dunque un lato su via Camperio e il
fronte principale su via Meravigli. Da due androni insieme pedonali e carrai si
entrava in un cortile la cui scarsa profondità impediva di apprezzare il fatto
che il corpo centrale si innalzasse per otto piani e si adornasse di un portone
tentativamente imponente. Successivi cortili e passaggi interni assicuravano il
collegamento tra l’estensione lunga su via Meravigli e quella più breve su via
Camperio; ma bisognava conoscerli a mente, anche le persone non più
reclutate da tempo ci si smarrivano. Così non si sapeva mai bene quanti
esattamente ci lavorassero. Era del resto un alveare di uffici di dirigenti e
impiegati della Direzione Commerciale Olivetti Italia, dopo la vendita di via
Clerici e il trasferimento appunto in via Meravigli.

Invece noi della Pubblicità, come venivamo chiamati comunemente e
all’ingrosso, ce ne stavamo affacciati su via Camperio e per anni i nostri
accessi furono da quella via. Eravamo insomma, per le molte persone degli
enti della Società e delle Consociate sparse in quattro continenti che avevano
con noi rapporti diretti o indiretti, e per i visitatori e fornitori, quelli di via
Camperio.

In effetti in via Camperio stavano gli uffici della progettazione, pianificazione
media e amministrazione della Pubblicità, oltre a dipendenze varie e
mutevoli. Invece il quartier generale della Direzione, Ufficio Stampa centrale,
e centri numerosi e importanti di ricerca e sviluppo del Disegno industriale
stavano a Ivrea. Il comando operativo e l’Ufficio Mostre erano in via Clerici,
nel palazzo che Adriano Olivetti nel 1954 aveva fatto edificare a Marcello
Nizzoli.
All’inizio della storia la vita era bella o forse sembrava tale perché eravamo
tutti mediamente giovani. Per andare in via Clerici per servizio, si
discendeva la via Meravigli, si incrociava via Dante e si lambiva il Cordusio,
si imboccava via S. Prospero, si percorreva la stretta via Bassano Porrone
(condottiero del Seicento). Quando si vedeva la brutta facciata falso-classica
della sede principale del Banco Ambrosiano, si girava a sinistra e si era in via
Clerici. Il palazzo Olivetti fronteggiava uno dei maggiori esempi di dimora
patrizia milanese, fatto costruire nei primi decenni del Settecento dal
maresciallo Antonio Giorgio Clerici, come scrive la Guida Rossa del Touring.

Qualcuno di noi aveva ottenuto il permesso di salire lo scalone d’onore e,
diplomaticamente scansando gli illustri ospiti delI’ISPI (Istituto per gli Studi di
Politica Internazionale), ammirare un aereo affresco di Gian Battista Tiepolo.
L’edificio successivo al nostro era la palazzina di stile floreale del Circolo
Filologico Milanese, una veneranda istituzione di insegnamento di lingue e
altre umanità. Insomma via Clerici poteva vantare una animazione di élite.
Recarvicisi per così dire in visita conferiva ai nostri passi una certa quale
allure.
Nel passaggio inverso dagli uffici di via Clerici a quelli di via Camperio, e
man mano che la gerarchia discendeva, bisogna però dire che
rimpicciolivano l’altezza dei piani, le viste sulla skyline della città e le
raffinatezze dell’arredo interno. Ma queste diminuzioni importavano assai
meno del fatto che noi si fosse relativamente fuori mano e, per così dire, fuori
da occhi di grande valore, senza dubbio, ma anche fatalmente giudicatorii.
Eravamo, se non una piccola repubblica autonoma, qualcosa come una
guarnigione di confine, certo funzionalmente dipendente dai Comandanti in
Capo, ma di fatto relativamente sciolta nei movimenti, abbigliamenti e
comportamenti.

Copywriters. Con più di un poeta.

“Redazione testi”, enunciò Giovanni Giudici. “Questa è una redazione di testi.
Una redazione da casa editrice”  Fu l’unica volta che lo vidi agire da “capo”
Ad ascoltarlo eravamo noi copywriters: Vittore Vezzoli, milanese, dai neri occhi  ironici; Alberto Projettis, tosco – piemontese, il cui sguardo trascorreva
veloce dalla cortesia perfetta allo sdegno intellettuale;
Irene Bignardi, milanese di madre veneta, dai grandi occhi viola che
sarebbero stati ammirati da uomini di cinema, di giornali e di romanzi. E che
di cinema sui giornali tuttora scrive. E me, naturalmente.
Giudici non era il poeta laureatus che è oggi, editato nei prestigiosi Meridiani
Mondadori, sollecitato di collaborazioni e inviti che lui vaglia dalla sua casa di
libri e olivi alla Serra di Lerici il cui antistante mare si chiama come è noto il
Golfo dei Poeti. Per dire solo le cose maggiori – ché Giovanni era anche un
industre e puntuale facitore di contributi prosastici a settimanali illustri, riviste
politicamente qualificate, effemeridi – aveva già pubblicato la raccolta di versi
Autobiologia, cui era stato assegnato il Premio Viareggio, e stava lavorando
alle poesie di O beatrice che sarebbero apparse nel ’72 (proto, attenzione: “b” iniziale minuscola).
Arrivava in ufficio rigirando nella testa le varianti (della sera, della notte, del
mattino stesso, dei finali gradini di ingresso) di una delle poesie che
sarebbero andate a comporre Il male dei creditori, o la traduzione in versi
prosastici dell’Eugenio Onieghin di Aleksandr Puskin (la bellezza di 5541
versi). Qualche volta infilava in macchina un foglio – e col volto intento, i bruni occhi accesi, picchiava sui tasti con due dita soltanto ma velocissimo. Scriveva e strappava il foglio estraendolo dall’alto col gesto deciso dei giornalisti di allora e lo stropicciava nel cestino e variava e variava di nuovo, criticandosi quando a me attrespolato al suo fianco pareva che la
perfezione fosse stata già magistralmente raggiunta e superata… La
traduzione di Lady Lazarus di Sylvia Plath costò alla ditta una risma quasi di
UniA4.

Se le femministe di quegli Anni Settanta avessero saputo quanto
orgoglio da fantaccino del lavoro editoriale, e quanta faticata comprensione dell’altro
vi erano nella resa di quei versi di dolore femminile!
Sarò l’unico poeta di cui non si troveranno manoscritti autografi, diceva
orgoglioso della propria abilità nella dattilografia.
L’età dell’oro fu per lui quella delle macchine per scrivere elettriche. Le
meccaniche le adorava, come tutti quelli della sua generazione, ma dovette
convenire che stancavano la schiena. Quanto alle elettroniche (e più tardi i
sistemi di videoscrittura e i personal computer) ne apprezzò ovviamente i
vantaggi, ma non provò amore per esse.

Dalla cronologia dei Meridiani ricavo che Giudici ha lavorato alla Olivetti
dall’inizio del 1956 alla fine del 1979: a Torino e a Ivrea nei primi tre anni, quindi
a Milano. Io avevo conosciuto Giudici quando traduceva II problema del
linguaggio poetico di Jurij Tynjanov, formalista russo degli Anni Venti, per il
Saggiatore di Alberto Mondadori, la Casa editrice di cui ero redattore.

Dal 71 al 79 ho condiviso la sua giornata di lavoro, per alcuni anni la sua stanza.
Quel tanto o poco che so di scrittura lo devo a lui.
Giovanni apparteneva alla categoria dei pedagoghi involontari. Non illustrava
le teorie, non spiegava le regole, non elencava i dieci o tre buoni consigli della comunicazione. Infilava un foglio in macchina, e “faceva vedere”. Provando e riprovando. Limando, togliendo. Picchiando, come ho detto, sui tasti delle meccaniche; scivolando su quelli delle elettromeccaniche; alzandosi di scatto per andare in corridoio a fare le fotocopie su cui appuntare le correzioni a mano. Il pedale di scrittura era il sottotono. È necessario che io aggiunga che questo era possibile, e che il risultato era infine raggiunto,
perché era scaturito e controllato da una severa sensibilita autocritica e dalla
conoscenza alla maniera antica dei classici, delle buone letture, delle
letterature?
Giudici sapeva ascoltare. Il cliente per Giovanni non aveva sempre
ragione ma l’aveva spesso.  Però una volta che c’erano complicazioni varie
e un quasi – certo siluro per la nostra Direzione nei testi con cui
accompagnare il lancio delle calcolatrici capaci di stampare lo scontrino con
IVA scorporata (la legge sull’Iva era imminente, e con essa un gigantesco
business per la Olivetti), mi trascinò con sé in via Clerici dai colleghi
dell’Ufficio legale e venne a capo dell’ntricatissima faccenda in tempo poco e
fatica nulla. Dichiarò sorridendo di sé all’uscita: astuto.
E mi portò a bere del vino (rosso lui, bianchino in forma di spritz io) da
Provera: premiata fiaschetteria allìinizio di corso Magenta in cui officiavano un
uomo competente, bello di riccioli e occhi grigi, e la moglie, che con Giovanni
parlava di Mosca dove viveva la figlia sposata. Bisogna sapere che Mosca e
Praga erano gli amori letterari di Giovanni; e che i vini e le grappe di Provera
erano sinceri, di gran classe. Quando Provera chiuse, nel 1991, qualcuno in
via Solferino prese la decisione giusta e l’indomani nelle pagine di cronaca
milanese del Corriere della Sera apparve un pezzo di Giovanni. Affettuoso,
preciso, sicuro.

Per un quarto di secolo ho lavorato nell’industria come scrittore di testi
pubblicitari: copywriter, anzi copy, secondo il gergo.  Sono parole di Giudici stesso.
Vorrei cercare di esporre le circostanze e le ragioni per cui
una vocazione (la scrittura dei versi) e un’attività (la scrittura di testi pubblicitari) apparentemente e anche sostanzialmente estranee fra loro abbiano
potuto così a lungo coesistere nella mia esperienza senza subirne eccessivo
danno, ma anzi traendone forse un certo beneficio reciproco.

Copy (così si definisce tutto ciò che nel messaggio pubblicitario è parola) e testo poetico
sono di solito composizioni relativamente brevi… Ma non avrò bisogno di
precisare che quell’apparenza o presunzione di facilità è assolutamente
infondata, perché scrittura di copy e scrittura di versi hanno in comune anche
un altro aspetto: l’esigenza di un massimo di attenzione e cautela nell’uso
delle parole.
Due poeti avevano preceduto Giudici nella Pubblicità Olivetti: Franco
Fortini e Leonardo Sinisgalli. L’uno dal 1947 al 53, poi come consulente per
un bel po’ di anni; l’altro tra il 1936 e lo scoppio della guerra nel 1940.

Studiandoli più tardi ho capito alcuni accenni che me ne faceva Giovanni (per
il vero più al primo che al secondo), le rispettive diversità e gli apporti
ugualmente forti alla costruzione del linguaggio pubblicitario olivettiano.
La nostra redazione non era infatti, come si è intuito, una ordinata cellula di
un organismo statico. Per ascendenze, modelli e aspirazioni eravamo
piuttosto una rinascimentale bottega di scrittura. Per rinascimentale intendo
tutt’insieme democratica, aristocratica e sotto permanente minaccia di
turbolenze organigrammatiche.

Alberto Projettis, che portava le esperienze del Personale e dalla Formazione, lavorava con Adriano Bellotto e Aristide Bosio, entrambi eporediesi, a coordinare i produttori e i registi dei film d’arte e dei documentari industriali con cui la Olivetti tra i Sessanta e gli Ottanta fece
man bassa di quasi tutti prei sia nei festival speciali. gli sia nell’ apposita
sezione della Biennale di Venezia. Qualche nome, per capire il perché: Carlo Ludovico Ragghianti,  Nelo Risi, Egidio Bonfante, Franco Taviani, Nelo Risi, Massimo Magri.

Nelle stesse stanze si editavano libri di convegni scientifici e publicazioni
fuori standard. Un raffinato fascicolo stampato su spessa carta gialla mise
agli onori del mondo dell’architettura il concetto di open space:
progetto di Ettore Sottass jr., testo di Franco Fortini, redazione di
Alberto Projettis.
Per introdurre nelle scuole le macchine e i programmi dell’elettronica a
venire, ossia argomenti noti allora solo nei Politecnici e all’Olivetti, furono
pubblicati dei libri tascabili frutto dell’incontro tra le sperimentazioni condotte
in Istituti tecnici, il lavoro redazionale di Tullio Savi, l’accuratezza
impaginatoria di Franco Bassi. Dal primo titolo I ragazzi e il calcolatore
venne il nome della collanina.

Art directors e direttori
Il copy fa coppia fissa con l’art, il copywriter con l’art director, la persona che
si fa venire in mente l’immagine, la crea o sceglie fra tante, la mette in
pagina. Nelle agenzie di pubblicità si dice proprio e solo così, copy-and-art,
praticamente una pronuncia sola. Noi di via Camperio non usavamo mai la
parola agenzia benché a tutti gli effetti fossimo una agenzia interna, però
avevamo i nostri art e i nostri assistenti grafici – e quali nomi! – figurano ai
posti d’onore in tutti i manuali della comunicazione visiva e nei lessici del
design editoriale.

Della generazione precedente alla mia non ho fatto in tempo a conoscere
Marcello Nizzoli. Giovanni Pintori era appena andato in pensione. Lo conobbi
nel suo studio personale, ordinatamente pieno di poster delle campagne di
lancio delle macchine per scrivere che gli hanno assicurato la fama.
Chiome grigie intorno a uno scuro volto sardo. Mi parve di pochissime parole, forse ero io a incartarmi nell’ammirazione per l’opera.
Egidio Bonfante dipinge tuttora la sua Venezia d’acqua. Aveva iniziato nel
nativo Veneto come pittore, del resto noto e riconosciuto; i suoi giovamili scritti di critica d’arte erano brillanti. All’Olivetti non era solo un progettista di allestimenti fieristici e un disegnatore di manifesti tra gradevolezza e quasi  genialità, era un tipo che scherzava sempre e che aveva un occhio malizioso per gli amici e quasi – amici. Ne uscivano couplets affetuosamente
feroci, sovente più che azzeccati. Le edizioni a stampa diventarono subito
introvabili. Con una mossa sola sbrigò Giorgio Soavi, che in gioventù aveva
lucrato un viaggio in America a spese di Adriano Olivetti descritto in un
libretto intitolato Fantabolous e che nei piani alti si occupava in allegria di
gadget, agende e altri parafernalia aziendali, ribattezzandolo fancavolus.

I miei art sono stati Franco Bassi, Walter Ballmer, Giacomo Sala, Giovanni
Ferioli. In funzioni contigue lavorava Roberto Pieraccini, il cui copy era
Giacomo Ghidelli. Anche Guido Valtancoli fece il copy. Ma siamo già anni
dopo. Per un certo periodo nei Settanta Bruno Segre ebbe la responsabilità di
organizzare e dirigere il settore creativo delle campagne pubblicitarie
internazionali avvalendosi come art director di Giovanni Ferioli. Più tardi
Bruno metterà la sua profonda cultura di studioso al servizio di nobili cause: il
riformismo a Bruxelles, il pacifismo in Israele.
Gli uffici dei grafici erano stanzoni enormi, scanditi dai tecnigrafi (le stazioni
videografiche sarebbero arrivate molti anni dopo), dagli alti sgabelli, da
armadi profondissimi costruiti per ospitare nei bassi cassetti i car-toni, le carte
speciali, le raccolte di poster. Il mestiere di grafico esecutivi-sta era
storicamente appannaggio, se così si può dire, delle donne giovani.
Questo non era l’ultima della popolarità di via Camperio presso le altre
Direzioni della Società. Ma non era facile distrarre le ragazze da un lavoro
che richiedeva in egual misura gusto, creatività e cura del particolare. Ricordo
Eddy Campagnoli, Adriana Bolzonella. Più tardi Anna Venturini, Maddalena
Alberti, Patrizia D'Avino. Successivamente, in un gruppo di stagiste, Evelina
Laviano e Carla Marchisio. come assistente di Franco Bassi, Camilla Masciadri sarebbe diventata professionista. Vi erano anche dei maschi: Camillo Rossi, marchigiano, Egidio Barborini, milanese, Marziano Pasque, brianzolo, che in seguito si misero in proprio.
Franco Bassi, veronese, e Walter Ballmer, svizzero, impersonarono
unitamente a Egidio Bonfante la prima generazione dopo quella dei Nizzoli e
dei Pintori. Un compito arduo, cui fecero fronte adottando, ciascuno a modo
proprio, uno stile fatto di rigore compositivo. Erano del resto gli anni tra la
fioritura dello stile di scuola nordica e gli ultimi fuochi del Bauhaus.
I colori, Ballmer li accoglieva se a fondo pieno, Bassi li ammetteva in quantità
puntiformi.
A Franco Bassi toccarono le pubblicazioni di lancio dell’Elea, il primo grande
calcolatore italiano, e della P101, il primo computer da tavolo al mondo.
Stava iniziando l’era dell’elettronica. Sua, ogni anno a primavera, era la
stampa del volume contenente il bilancio della Società. Un parto frenetico,
fatto di una serie quasi ininterrotta di rush ogni volta definiti finali.

Il professore, come lo chiamavano fotografi, impiantisti e tipografi che
arrivavano e ripartivano con la lingua fra i denti, non si lasciava andare se
non a qualche smozzicata imprecazione ed entrava solo e impavido nella
stanza di Renzo Zorzi. Sue anche moltissime delle copertine dei libri e
fascicoli di “Comunità”. Walter Ballmer ebbe l’mportante compito di ridisegnare il logotipo della Società, che vide la luce nel 1970. Lui, Hans Von Klier, Clino Castelli, Perry
King, Alberto Benelli, furono a vario titolo e impegno incaricati di svilupparne
le applicazioni in un sistema onnicomprensivo, un Identification System
affidato a un impressionante raccoglitore che in forza del colore e dello spirito
dei tempi venne chiamato Il Libro Rosso. Tutte le grandi società nel mondo si
buttarono all’inseguimento del modello.

Giacomo Sala e successivamente Giovanni Ferioli, ambedue milanesi,
chiusero il ciclo, come dimostrerò tra poco. Giacomo era un omone bravo con
i suoi, serio con i clienti. Aveva servito negli alpini e in un certo senso non se
ne era mai congedato. Giovanni, piccolo, occhi scrutatori, coraggioso nella
vita, dotato di mestiere sicuro e sapiente, è stato l’ultimo a poter fregiarsi del
titolo di art director della Olivetti. Del nostro lavoro in comune parlerò tra
qualche pagina.
I corridoi e le sale riunione erano animate dai fornitori.  Dietro e dentro
questa parolaccia amministrativa sono stati per anni i più bei nomi della storia
della fotografia di reportage e di design: Henri Cartier – Bresson, che realizzò
il servizio sulla fabbrica di Pozzuoli, Ugo Mulas e Mario Mulas, Alfredo Crabb,
Enzo e Paolo Regazzini, Gianni Berengo Gardin, Enzo Frea, Romano
Cagnoni, Gabriele Basilico, Toni Nicolini, Gianni Baggi, Edward Rozzo e altri
ancora. Nomino anche alcuni tipografi: Roberto Nidasio, Zanchetta della
Gilcar (padre, figlio e figlia), la signorina Carla della tipografia Scotti, e un
fotolitista straordinario, Claudio De Pedrini. Elencazioni parziali, che valgono
a dire quanto i progetti grafici, pubblicitari, editoriali, fossero realizzati a un
punto di qualità finale altissima.
Nella sua lunga storia la Direzione ha avuto vari managers. I miei direttori
sono stati Riccardo Felicioli, Nicola Lo Russo, Pietro Bordoli, Paolo Viti per un
periodo di interregno, Giovanni Maggio, Giorgio Di Pietro. Su tutti, Renzo
Zorzi.

Riccardo Felicioli, toscano di origine, ci ha lasciati qualche anno fa, senza far
sapere che la malattia l’aveva ghermito alle spalle. Quando lo vidi l’ultima
volta a Ivrea alle celebrazioni degli ottant’anni della Societa notai, senza
capire, che il suo volto bello non sorrideva del sorriso intelligente per cui era
stimato e amato. Nicola (che tutti chiamavano Nick) Lo Russo sembrava un
abate del Settecento, era piccolo, tondo, roseo, precisissimo e cortesissimo. Era figlio
di italiani emigrati in Belgio, aveva un buffo accento. Troppo cortese per la
vita, che non sempre è cortese con le persone educate. Si ammalò, fu fatto
scomparire un po’ misteriosamente. Sono cose che in azienda succedono ma
mi rimprovero di averlo archiviato con un sospiro. Faccio ammenda ora, per quello che può servire. Pietro Bordoli, comasco poi diventato cittadino
elvetico, fu mandato a rimettere ordine sia nei conti sia tra le persone, cosa
che fece con un sorriso imperturbabile. Riparti per altri e analoghi compiti.
Dall’Alta Direzione in cui era vice e factotum di Zorzi fu comandato Paolo Viti.

L’interinato durò, se non ricordo male, un anno buono. Cose che in azienda
succedono. Viti tornò alla brillante carriera di organizzatore di grandi mostre
internazionali che lo avrebbe portato alla Fiat sino alla direzione di Palazzo Grassi a Venezia.

Giovanni Maggio fu un’altra cosa, fu un comandante effettivo, in ogni senso
del termine. Lucano di Potenza, voce forte, calzato di monumentali
Church’s ferrate, prese atto che a metà degli Anni Ottanta il mondo intero, la
concorrenza di settore e la Olivetti avevano una pietra di paragone intorno
alla quale la battaglia si era fatta soda: il Personal Computer, l’elettronica in
inarrestabile diffusione dalle macchine per scrivere ai sistemi di scrittura alle
calcolatrici, financo alle copiatrici. Globalizzazione, non si diceva ancora,
ma le nuove tecnologie stavano spalancando il vaso di Pandora.
Maggio si circondò di un ufficiale di macchina, Franco Zangheri, vogherese
pertinace, e di un direttore creativo internazionale, Jorge Fuentes argentino
emigrato a Parigi. A Fuentes fu assegnata una assistente, Cecilia
Belardo, milanese coriacea; a Zangheri una segretaria, Maly Foschi, milanesissima.

Maggio chiese a me di fare l’account, la persona che tiene i contatti, I’ufficiale di collegamento tra i creativi delle agenzie e il cliente. Contattò agenzie esterne, seleziono campagne. Partiva per Ivrea per farle approvare personalmente da Carlo De Benedetti, che mezza Europa, e gli
States pure, sapevano esser persona ruvida. Dopo la partenza gli uffici
sembravano ripiegarsi da sè nel silenzio; Gabriella Brasca, la segretaria,
milanese dolce, si dedicava alle carte arretrate. Qualche tardissimo
pomeriggio ho fatto compagnia a Zangheri nell’attesa che il suo telefono
squillasse.
Furono anni intensi. La Direzione fu trasferita in un complesso per uffici tutto
nuovo in via Caldera, in fondo a via Novara, per il niente affatto entusiasmante
motivo di permetterci di essere più prossimi a Ivrea, e smembrata. I
collegamenti internazionali furono affidati a Silvio Paschi, triestino, che avevo
conosciuto quand’era studente di filosofia. L’ufficio account fu rafforzato con
l’arruolamento di giovani molto simpatici: Flavio Brigante Colonna, romano,
Dilio Lambertini, napoletano, Barbara Mori, milanese di madre tedesca.
Giorgio Di Pietro è stato l’ultimo a fregiarsi del titolo di direttore della
Pubblicità Olivetti Italia. Correva l’anno 1988.

Nella svolta tra gli Ottanta e i Novanta e nella crisi che travolse la Olivetti sino alla dissoluzione finale tra il 1996 e il 97 furono assunti provvedimenti sempre più frenetici, decisi scorpori e ristrutturazioni, cambiate targhe, nominate persone sempre più improbabili,
esterne, estranee. Nomi non ne ricordo. Viceversa Giorgio Di Pietro, milanese, tennista instancabile e gran milanista al cospetto di Dio, mi sembra giusto, e veridico, salutarlo come “l’ultimo della razza signora”.

Mi resta da spiegare perché all’inizio del paragrafo ho scritto “Su tutti, Renzo Zorzi”.
L’espressione oggi corrente di responsabile immagine e comunicazione del
Gruppo sarebbe riduttiva. Dalla metà dei Sessanta quando successe a
Riccardo Musatti sin quasi alla fine come consulente (pur sempre con
confortevoli uffici interni), è stato il responsabile dell’insieme delle attività
culturali, pubblicitarie, di design, di architettura della Olivetti. Direttore delle
Edizioni di Comunità, della vecchia e della nuova serie della rivista omonima.
Sue le presentazioni delle grandi mostre d’arte, nessuna delle quali fu mai
sponsorizzata ma pensata, realizzata, organizzata interamente nell’ambito
delle attività culturali della Olivetti, caso unico al mondo. Altissimus est, et
impatiens, director – così con ironia di Egidio Bonfante mi permetto di parlare
di lui.

All’apogeo aveva sotto di sè 130 persone, una più una meno, e la
maggior parte erano di rango e di grado, per tacere degli incaricati di rango
ancora più alto, e internazionale. Tutte le guidava e muoveva, alzava e
abbassava, con scarne parole; nessuna o quasi con toni motivanti. Non ci si
stupirà se scrivo che praticamente né io né molti altri avemmo rapporti diretti
con quell’uomo alto, dai capelli neri sino a tardi. Capace di scrivere periodi di
quindici, venti e anche più righe, la cui sintassi si edificava senza mai
avvitarsi, resa anzi più salda dalla sua stessa forza ascensionale, su su
sempre più in alto.

Un lavoro fuori porta
Avvenne che verso il 1983 Giovanni Ferioli impaginò in solitario una certa
quantità di poster e pieghevoli per la Consociata OCN. La OCN costruiva
macchine a Controllo Numerico (diciamo macchine per fare pezzi di
macchine, insomma automazione industriale), stava a S. Bernardo di Ivrea ed era l’erede delle OMO, Officine Meccaniche Olivetti, il cuore della
creatura del padre fondatore Camillo Olivetti – come è noto un grande
meccanico.  I poster e i pieghevoli piacquero molto all’ingegner Franco De
Benedetti, fratello di Carlo De Benedetti e presidente delle Consociate
italiane del Gruppo Olivetti nonché amministratore delegato del Gruppo CIR,
la società primigenia dei due fratelli. Fu così che Giovanni Maggio fu
incaricato del ridisegno generale e particolare dell’immagine e della
comunicazione di quelle aziende industriali, che erano numerose. Maggio
chiamò Ferioli e me. Noi due diventammo così una coppia indivisibile, e
viaggiante. Ci eravamo trovati un lavoro supplementare che ci avrebbe presi
per cinque o sei anni, lui anche di più.
Avemmo rapporti con il circondario del Canavese: S. Bernardo, S. Lo-renzo,
Scarmagno, Leinì. Ci inerpicammo oltre Pont Canavese sino a Lo-
cana su per i tornanti del fiume Orco che scaturisce dal Gran Paradiso,
perché tra quei monti scabri in cui risuonavano ancora le battute di caccia di
re Umberto, Adriano Olivetti aveva fatto costruire una manifattura di componentistica meccanica, così che i valligiani non fossero obbligati a inurbarsi per lavorare. Andammo a Roma, a Legnano, a Marcianise, a Pozzuoli, a Bari dove c’erano società di software, a Cormano, a Crema, in tante altre sedi milanesi.

Facemmo monografie aziendali, pieghevoli di prodotto, annunci per riviste di
settore, manifesti, locandine di prodotto, piani di comunicazione, schemi di
corrispondenza. Passo dietro passo costruimmo per quelle società
immagine coordinata, bilanciata tra discorso di Gruppo e identità
specifiche, certo entro i limiti dei budget di aziende che non avevano bisogno
di convincere le vaste masse. Naturalmente non facevamo tutto da soli, con
noi come copywriter avevamo un vecchio olivettiano, Nano Levi, piemontese
segaligno, signore all’antica; e in ogni azienda vi erano uno o due interlocutori
addetti, con tutti o quasi di loro si instaurarono rapporti umanamente e
professionalmente eccellenti.
Il lavoro grosso e fino insieme fu quello con la Sasib di Bologna e la Fiaam –
Sogefi di Mantova. Società storiche, la CIR le assorbi e le portò in Borsa.

Franco De Benedetti chiese a Giovanni Maggio un impegno particolare nella
costruzione di un’immagine moderna, uniformemente identificabile pur tra più
marchi e molteplici espressioni comunicative su mercati diversi. Sasib aveva
infatti una fabbrica che costruiva segnalamento ferroviario, un’altra
macchinari per l’impacchettamento del tabacco, una serie di acquisizioni nel
settore dei macchinari per il packaging e l’imbottigliamento. Fiam Filters e
altre aziende raggruppate nella Sogefi costruivano componenti per motori e
veicoli. Insomma imboccammo la via Emilia, storditi dagli inputs ed eccitati
dalla novità.
La Sasib aveva sede di fronte all’Ippodromo dell’Arcoveggio. La mattina
dalle finestre della sala riunioni vedevamo i cavalli portati fuori a sgambare,
subito ricoperti dalle coperte antisudore. I nostri interlocutori al la Sasib erano
tutti ingegneri e tutti simpaticissimi. Fummo accolti da Ferdinando Conti, che
sedeva di fronte a una gigantografia che rappresentava Bartali che passa la
borraccia a Coppi (o viceversa?). Per dire la passione della sua vita. Fu poi
sostituito da Laura Briozzo, emiliana minuta, vivacissima. Tra i tabacchini
ricordo Mario Maestroni, tra i ferrovieri Giuseppe Bonfigli, ambedue
responsabili delle rispettive Divisioni. L’amministratore delegato, Gian Carlo
Vaccari, aveva iniziato a lavorare nella leggendaria Divisione Elettronica
dell’Olivetti. Aveva quell’aspetto pacioso di tanti bolognesi, la cui bonomia è
notoriamente ingannevole: era infatti capace di tenacia nelle decisioni,
grande lavoro, serietà di fondo. Facemmo la campagna per il lancio della
società in borsa, stampammo degli Annual Report che non sarà elegante che
io dica bellissimi, ma lo erano sul serio.
Nel gioco fuori casa Ferioli si svelò account eccellente: Vaccari, la Briozzo e
tutti gli altri, i tecnici delle società acquisite a Parma, a Collecchio, se li rapiva
tutti. Continuò a essere loro consulente anche dopo il suo ritiro dall’Olivetti
alla fine del 1991.

Mantova non fu da meno come luogo di delizie. Il capo marketing Beccari ci
diede (forse sarebbe più giusto dire, diede a Ferioli) credito illimitato. Il
Gruppo era in quegli Anni Ottanta in forte espansione, anche all’estero.
Andammo all’inaugurazione di uno stabilimento a Barcellona su invito
dell’amministratore delegato Roberto Colaninno, più tardi destinato alla
notorietà per la successione a Carlo De Benedetti nella guida di quel che
restava della Olivetti e per la meteorica scalata alla Telecom. Mantovano
nonostante il cognome di chiara ascendenza meridionale, lo vedevamo
sempre sul punto di partire su un’auto veloce alla volta di Linate e da li per
ogni punto d’Europa.

Su tutti, Franco De Benedetti. Non assomigliava affatto al fratello, che,
particolare poco noto, gli era minore d’età. Alto e asciutto, le ossa delle mani
ben visibili, capelli precocemente bianchi, era accreditato di capacita da
ingegnere di prodotto; però si sapeva che aveva una passione assorbente
per la musica. Uomo dal carattere tempestoso, era effettivamente dotato di
forte sensibilità. Questo può spiegare perché dopo l’uscita dall’Olivetti si sia
dedicato alla politica attiva collocandosi tra i riformisti. Presentargli l lavori
non era compito cui accingersi con animo leggero, ricordo una mattina di fine
agosto in cui Lorenzo Lenelli della Syntax (società di software) e io lo
inseguimmo sino a Caselle per farci dare l’ok a un menabò; però si sentiva
che si aveva a che fare con una persona che credeva nella comunicazione,
nella grafica ben fatta.
Ci fu infatti un progetto che De Benedetti non criticò neanche per una virgola,
quando Ferioli glielo presentò. Per celebrare con un omaggio culturale
l’ingresso della bolognese Sasib sulla scena parmense, ci fu chiesto di
pensare a qualcosa che restasse. Ferioli era stato portato dai suoi nuovi
amici a Ozzano di Fornovo, fuori Parma, dove Ettore Guatelli, maestro elementare a riposo, aveva stipato con migliaia di oggetti d’uso della vita contadina in Emilia le stanze, le aie, i corridoi, i sopralzi, le madie e gli armadi, le stalle abbandonate di una casa colonica dalle antiche mura, creando così un museo di fatto. Non c’era un angolo libero ma non c’era
nemmeno l’ossessione del collezionista di vite altrui.

Proponemmo un libro di immagini. Ferioli aveva in testa non una mera riproduzione di oggetti ma una poetica visione di quel mondo contadino che era alle radici della ingegnosità
protoindustriale sorta sui fianchi della via Emilia.
Il bellissimo servizio fotografico in bianco e nero lo realizzarono i fratelli Enzo
e Paolo Ragazzini, io scelsi sei poesie di Attilio Bertolucci, Giacomo Ghidelli
scrisse il testo di introduzione e raccolse la testimonianza di un Guatelli
peraltro non troppo stupito, anzi compiaciuto, della presentazione che
facemmo tenere a Federico Zeri in un bel palazzo della città.
Non meno compiaciuto Franco De Benedetti sedeva in prima fila, tra Vaccari
e Maggio.
Quello che quel pomeriggio di dicembre del 1988 non potevamo sapere era
che quel capolavoro sarebbe stato il nostro ultimo importante lavoro per
bolognesi, mantovani, emiliani e olivettiani vari. Qualche venerdì prima la campanella di Wall Street aveva suonato per le grandi industrie. Il mondo cambiava come fa periodicamente e anche il nostro piccolo mondo antico non sfuggi alla ruota.

Se ho narrato con una certa dovizia di particolari questa vicenda è perché è
ignota ai più, non ha lasciato tracce in libri, negli archivi (chissà?), ma anche
perché sono convinto che non è stata un’ansa in un fiume, è stato un capitolo
preciso di una storia di sapere e di prassi, in cui abbiamo dimostrato che noi
della Pubblicità di via Camperio sapevamo trattare e risolvere prodotti,
mercati e processi che andavano oltre la monocultura Olivetti. Dintorni e
dissolvenza Il piccolo mondo antico era un arcipelago di competenze, professionalita e
compiti. Ovviamente mutevoli negli anni.

Rapporti quasi quotidiani, e molto buoni, avevamo con l’Ufficio Stampa, che
aveva sede principale a Ivrea e sede editoriale e culturale a Milano, alla fine
in via S. Giovanni sul Muro. Era, se così si potesse dire, un covo di
gentiluomini. Mai viste cosi tante squisite persone in cosi poco spazio: da
Mariolino Minardi, toscano, capo storico, a Ugo Panerai, napoletano, ad
Alberto Projettis, là confluito a occuparsi dei rapporti con le pagine culturali.
Alberto tendeva a far tardi in ufficio con il pacco dei giornali e questo a un
certo momento, unito al fatto che nel frattempo io ero diventato single, diede
inizio fra noi a un dialogo che si è soltanto accresciuto, come testimonia
questo libro.

I designer, gli architetti… non cito nemmeno i nomi grandissimi, preferisco
citare solo quelli con cui ho avuto contatti diretti. Perry King, un in-glese, se
posso dirlo, molto british, Santiago Miranda, spagnolo esule dal franchismo:
insieme realizzammo, con forte anticipo sui tempi, una guide-line alla
promozione da parte dei Concessionari locali. Erano gli architetti che
curavano gli allestimenti fieristici, le presentazioni dei nuovi prodotti, gli eventi
speciali, in collegamento con promoter di lungo corso come Andrea Gloghini,
il cui bruno volto diceva che era figlio di italiani rimpatriati dalla Grecia, come
Luigia Carmignato, milanese, la nostra sindacalista.

Nomino Hans Von Klier, austriaco di Boemia, bell’uomo che ci ha lasciato due
anni fa, e Maurizio Navone, il più giovane della squadra, torinese, allievo di
Sottsass, che ora con Ida Lorenzon, lombardo – veneta già redattrice delle
Edizioni di Comunità, ha impiantato uno studio professionale, che, poiché
lavora per le società della diaspora Olivetti ed è composto solo da giovani, è
di fatto il continuatore/innovatore della tradizione. Di mezzo ci metto Pier
Paride Vidari, sempre sorridente, studioso delle architetture oli-vettiane, da
anni è docente al Politecnico di Milano, ora alla nuova Facoltà di Disegno
Industriale alla Bovisa. L’archivio del loro ufficio, in via Porlezza, era tenuto
da Maria Vittoria Lodovichi, pisana, che con ferrea discrezione coltivava
interessi psicoanalitici. Quando quel patrimonio di po-ster, stampati e
diapositive fu chiuso in casse e ristretto in una stanza della nuova, anonima
sede di via Lorenteggio senza alcuna garanzia di ritorno alla vita, diede le
dimissioni e se ne andò insalutata.

E tempo che anch’io saluti la mia storia. Dopo il trasferimento in via Caldera
eravamo tornati in via Camperio; quindi ci fu un nuovo ordine di marcia per
via Villoresi, sui Navigli; rimpatriammo; fummo definitiva-mente fatti tracimare
al Lorenteggio, in torri che non erano nemmeno postmoderne. Ogni
movimento avveniva tra perdite, smarrimenti d’animo.
In un pomeriggio di fine dicembre del 1994 l’ultima segretaria della Direzione, Rosa Sapio, calabresella, mi aiutò a preparare la festa d’addio.
Non passai le consegne al mio ultimo collega di stanza Raimondo Damiani,
torinese sorridente – non c’era più nulla da passare. Finii invece di
raccontargli alcune leggende aziendali. Alberto Projettis arrivò all’ultimo,
lesse con la sua bella voce alta il componimento che aveva scritto per il mio
congedo e che in un sussulto di tardivo understatement qui non trascriverò;
mi diede infine una mano a raccogliere i regali, qualche vecchia carta, e a
tornare a casa.

Appendice sulle fonti e sulle persone.

Titolo

Come è suggerito dal titolo, ho lavorato a mia memoria e sulla memoria.
E relativamente agli anni in cui ho prestato servizio alla Direzione Pubblicità
(o come variamente si è chiamata nel tempo): dalla fine del 1969 alla fine del
1994. Tra le conseguenze di questo approccio vi è che per ogni nome scritto
ne ho saltati almeno due. Chiedo scusa agli assenti. Ai presenti chiedo
comprensione per le inesattezze, i salti temporali ecc. che certamente non
mancano. Ma dovevo e volevo rendere una testimonianza non scrivere un
regesto. (Post-scriptum: nel febbraio 2004 è morto Egidio Bonfante. Ho
ritenuto di non modificare il testo in cui ho parlato di lui perché come
affettuoso omaggio restasse la sensazione del sorriso intelligente che lo ha
contraddistinto sino all’ultimo).

Primo paragrafo
I primi due capoversi del mio contributo: Via Camperio a Milano è una via
stretta, apparentemente rettilinea, che per quasi tutte le ore del giorno
conserva un aspetto quieto, quasi un appartato angolo di provincia…; sono
una parafrasi dell’inizio della prefazione di Geno Pampaloni alla raccolta degli
scritti di Adriano Olivetti, Città dell’ uomo: Via Jervis a Ivrea è una via che, per
molte ore del giorno, conserva un aspetto quieto, di appartato angolo di
provincia. Percorre i duri selci grigi, per attraversarla, qualche operaio o
qualche impiegata, o una fila di giovani allievi della scuola di fabbrica, con la
vivace macchia blu delle tute … (Edizioni di Comunità, Milano, 1960, pag.XXIII della nuova edizione presso lo stesso editore, 2001).
L’omaggio al nitore della pagina da grande umanista di un uomo che fu uno
dei collaboratori più intimi di Adriano Olivetti; anche un mio piccolo atto di
ossequio a una Ivrea (a una certa Ivrea) che non ho sostanzialmente mai vissuto,
pur essendoci andato per lavoro mille volte.

Era possibile entrare e salire anche dal civico …, per la cronaca, fu li che in
considerazione delle tempeste e marosi dell’autunno caldo, fui invitato a
presentarmi per l’assunzione. Un quasi imberbe Federico Butera, palermitano
dai colori normanni, mi arruolò come copywriter per la Consociata Olivetti
Systed, appena nata per occuparsi di formazione sotto la guida di un
dirigente di non dimenticabile signorilità di tratto e capacità di armonizzare
provenienze diverse, Marcello Ceccoli, napoletano. Il suo secondo era Giancarlo Baldovini, piemontese langarolo, successivamente alla Syntax. Alla Systed ho lavorato sino al 1971, quando fu sciolta. Una parte andò alla Consociata Elea, che si occupava di formazione; un’altra fu assorbita appunto nella Direzione Pubblicità. Per questo motivo ho tracciato
un’unica storia.

Secondo paragrafo
La citazione di Giovanni Giudici è tratta da: Prosa di copywriter, in Andare in
Cina a piedi. Racconto sulla poesia, Edizioni e/o, Roma, 1992, pp.101-102.

Terzo paragrafo
La citazione di Renzo Zorzi in La sponsorizzazione culturale Atti del
convegno organizzato da Comune di Milano, Rai, Teatro alla Scala, Cariplo,
promosso da New International Media con la collaborazione di Scr Associati, Milano, 18 gennaio 1982, pag. 53.

Quarto paragrafo
Gli aspetti essenziali della vicenda CIR – Sasib sono stati ricostruiti nella tesi
di laurea di Barbara Mori, Problematiche di immagine e comunicazione nei
gruppi industriali che acquisiscono nuove partecipazioni, IULM, a. a. 1987-
1988, relatore prof. Giuseppe Roggero, correlatore prof. Giuseppe Monico.

Quinto paragrafo
Dopo il congedo mi sono dedicato alle scritture pubblicistiche e sono tornato
agli studi. Collaboro alla cattedra di Semiotica della Facoltà di Disegno
Industriale del Politecnico di Milano.
Quando Vittorio Francione, che a un certo punto della sua vita ha scelto di
divenire olivettiano per ammirazione della grafica e delle idee di Adria-no, ha
fondato a Milano il Network Adriano Olivetti, ho collaborato con lui e tra le
altre cose nella primavera del 2003 abbiamo animato presso l’Università
Bocconi una serie di presentazioni di laureati e dottorandi, appunto intitolati "I
giovani incontrano Adriano Olivetti.
Personalmente ho scritto di argomenti olivettiani in sedi e con chiavi diverse.
Nella sua rivista Abitare Italo Lupi ha ospitato scritti di recensioni e
ricorrenze; la sua maniera di ricordare i cent’anni della nascita di Adriano fu
di chiedermi un articolo su Adriano Olivetti editore. Nella rivista di alta cultura Acropoli, Giuseppe Galasso ha accolto miei saggi sull’opera teorica di
Adriano. Il capitolo in cui ho brevemente narrato la storia della Società Olivetti
nel volume Oggetti Novecento scritto con Massimo A. Bonfantini si intitola Lettera 22.

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